giovaniDi Luigi Crimella

Quasi 5 milioni di volontari, un apparato informale di oltre 390mila organizzazioni censite dall’Istat con un raddoppio rispetto ai dati di dieci anni fa, 800mila occupati come dipendenti diretti, 12mila cooperative e imprese sociali con una media di 10-12 addetti, 8mila fondazioni di comunità, il tutto per un giro d’affari stimato in circa 74 miliardi di euro che corrisponde al 4% del Pil italiano: è la fotografia sintetica del “terzo settore”, quella realtà multiforme e ancora poco conosciuta che, a vario titolo, coinvolge un decimo della popolazione del nostro Paese. Chi di noi non si è mai imbattuto in una cooperativa sociale, oppure in una realtà di volontariato, o in una impresa senza fine di lucro? Quello è il “terzo settore” che, come dice il nome, si colloca a metà tra lo Stato e il mercato, tra i servizi pubblici e le aziende private.

Arriva l’ok dal Senato. Il 30 marzo è finalmente arrivato il via libera del Senato alla nuova normativa e il Forum del terzo settore si è espresso positivamente: “Salutiamo con soddisfazione l’approvazione da parte del Senato del Ddl di riforma del terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale”.Il testo che Palazzo Madama “ha finalmente approvato risponde a molte delle istanze che abbiamo sollevato: la definizione di finalità e oggetto di ente di terzo settore e la questione della revisione fiscale, il riordino in materia di servizio civile nazionale con il riconoscimento della difesa non armata della patria e l’allargamento agli stranieri con regolare permesso di soggiorno”.“Molto buono l’articolo cui infine si è giunti sull’impresa sociale e il complesso lavoro di sistematizzazione e riordino di tutto il quadro normativo che ha caratterizzato per trent’anni il nostro mondo”. Dopo l’approvazione al Senato il testo torna alla Camera – dove potrebbero essere apportati ulteriori miglioramenti – e quindi essere applicato con l’attuazione della “delega”, cioè dei decreti attuativi da parte del Governo stesso.

Verso un “registro unico”. La portata di questa iniziativa legislativa è molto ampia, non solo per i numeri coinvolti. Riformare e codificare una nuova configurazione per il “terzo settore” significa, per l’Italia, introdurre modalità diverse e più avanzate con le quali i cittadini potranno associarsi, attivare autonome iniziative di portata sociale, culturale, assistenziale. La miriade di realtà filantropiche, caritative, promozionali di welfare popolare oggi presenti troveranno una nuova e più completa cornice giuridica, oltretutto realizzando – questo sembra uno degli intenti principali del legislatore – una codificazione nazionale grazie alla istituzione di un “registro unico”. Finora, infatti, se ne contano circa 350, sparsi tra comuni, province, altre realtà amministrative. Con la riforma si dovrebbe arrivare a un’unica banca dati, accessibile da parte di tutti i cittadini, che tra l’altro potrebbero contare su una informazione credibile e in grado di tranquillizzarli circa la reale affidabilità delle organizzazioni con cui hanno a che fare.

Welfare rinnovato di matrice popolare. La riforma presenta aspetti piuttosto complessi. Ad esempio, quello fiscale che prevede che possano accedere ai benefici soltanto quelle realtà che rispondono a precisi criteri. Dovrebbero così progressivamente cessare gli “abusi” che hanno consentito a numerose organizzazione di beneficiare del 5 per mille, pur non essendo se non di facciata volte a finalità sociali o ad attività civiche e solidaristiche. Oltre a una revisione piuttosto profonda del meccanismo del 5 per mille, si dovrebbe introdurre un nuovi sistema di donazioni liberali, probabilmente senza tetti, così da incentivare le erogazioni da parte dei privati.

Parallelamente al discorso fiscale, la riforma prefigura nuove modalità finanziarie

per sostenere il terzo settore: si va dai mini-bond a forme di agevolazione nella raccolta di capitali, come il crowdfundig. Si punta anche a estendere il concetto di “impresa sociale”, superando la dicotomia tra volontariato e mondo cooperativo. Se pensiamo a comparti quali il turismo sociale, il microcredito, l’assistenza agli anziani e portatori di handicap, il mercato equo e solidale, la tutela di arte, cultura e ambiente, ci troviamo in un’area socio-economica composita. Lo Stato, con la sua crisi di bilancio, tende ad arretrare, ed è bene che avanzino le “imprese sociali”, al cui interno sia salvaguardata da un lato la dimensione volontaria e dall’altro sia invece promosso un nuovo modo di fare impresa, come motore di sviluppo di un welfare rinnovato e di matrice popolare.In questo scenario che si sta aprendo, dovrebbe trovare nuovo spazio anche il servizio civile, che la riforma propone come non obbligatorio ma “universale”, cioè aperto a tutti i giovani che ne facciano richiesta.Attualmente l’offerta delle centinaia di enti promotori è di circa 50mila posti l’anno e l’obiettivo è di arrivare almeno a 100mila nel giro di un quinquennio.

Nella società del cambiamento. Alcune critiche dal mondo del volontariato e terzo settore sono giunte a proposito di alcune esclusioni: ad esempio il settore sportivo amatoriale, le energie rinnovabili e la mobilità alternativa. Il parere complessivo espresso, a livello di Forum del terzo settore, è comunque positivo pur con alcune sottolineature e richieste di correzioni. Vedremo come, alla fine del dibattito parlamentare e dei passaggi di approvazione da una camera all’altra, alla fine la nuova legge sarà definitivamente varata. Ma una cosa si può dire sin d’ora: il terzo settore del futuro dovrà essere pronto a recepire quegli stimoli che vengono dalla società del cambiamento e multiculturale nella quale – volenti o nolenti – siamo sempre più immersi. E dovrà essere un terzo settore veramente elastico e pronto a rispondere a bisogni nuovi e impensati.

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