personeDi Maurizio Calipari

Non è una novità assoluta, ma sicuramente è una buona notizia. L’Università Statale di Milano ha istituito la Cattedra di umanizzazione per gli studenti di medicina, affidando a psicologi e psichiatri il compito di insegnare l’arte dell’empatia ai futuri medici.
Non è una novità assoluta perché, in questi ultimi anni, numerose facoltà di medicina hanno intrapreso iniziative simili (ad esempio, il Policlinico universitario di Palermo, l’Università di Siena, l’Università di Torino, ecc…). Ma è comunque una buona notizia, perché rafforza la sensazione che l’esercizio della nobile “ars medica” voglia riappropriarsi, in pieno e al più presto, della sua vocazione originaria: servire la persona sofferente nella sua interezza, e non limitarsi soltanto alla guarigione “tecnica” delle sue malattie. Perché non si può certo negare che l’enorme sviluppo delle capacità tecniche d’intervento medico e la tendenza alla “iper-settorializzazione” delle sue specializzazioni, oltre che offrire maggiori possibilità di successo nella cura delle patologie, al tempo stesso, hanno finito per incrementare il rischio di restringere lo sguardo del medico, fissandolo esclusivamente sulla “parte malata” di sua competenza, ma perdendo di vista la persona nel suo insieme. Non più, dunque, una medicina per la persona, ma la performance di una sofisticata tecnica medica, di fatto disinteressata alla realtà personale del paziente. Un atteggiamento che dimentica

una verità essenziale: ogni persona malata è molto più delle sue patologie ed è irriducibile ad esse.

Ovviamente, senza fare di tutta l’erba un fascio. Va reso senz’altro merito, infatti, ai tantissimi medici (forse la maggior parte) che non hanno mai tradito il loro mandato ippocratico, ben coscienti di praticare non un mestiere qualsiasi, bensì una “ars” nata per servire la vita e la salute delle persone.
Del resto, se le facoltà di medicina stanno sentendo il bisogno di recuperare – inserendola nel curriculum formativo degli studenti – una dimensione fondamentale della relazione medico-paziente, qual è la capacità empatica, un motivo ci sarà pure.
Per esempio, il fatto che alcune ricerche (ma non sarebbe bastato un po’ di buon senso, per capirlo?) hanno evidenziato che quando il medico dimostra umanità ed empatia nei confronti del paziente, migliora anche la risposta alle cure e l’adesione ai trattamenti.
“La notizia è eccezionale. Sono certo che una nuova schiera di medici di nuova generazione prenderà sinceramente in considerazione l’integrità della persona, non solo fisica ma anche psicologica”, ha commentato il dr. Giovanni Delogu, psicologo e psicoterapeuta, a proposito dell’istituzione della nuova Cattedra. “Il mio parere – ha proseguito – è che dovrebbero nascere corsi del genere in tutte le facoltà di medicina italiane, considerato che la buona relazione medico-paziente costituisce a mio avviso il 50% del successo terapeutico”.
Concordiamo convintamente con lui, a tal punto da spingerci oltre e porre anche una questione ulteriore:

non sarà il caso di inserire questa disciplina nel percorso formativo di altre categorie professionali, la cui opera ha per definizione un impatto diretto sull’interiorità delle persone? Ad esempio gli insegnanti di ogni ordine e grado? Oppure coloro che hanno compiti dirigenziali verso dei sottoposti? E uscendo dall’ambito professionale, non sarebbe utile includere tra i destinatari anche vescovi, preti, religiosi e religiose, e magari operatori pastorali e catechisti?

Forse, bisognerebbe farci un pensierino.

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