BorundiDi Davide Maggiore

“Purtroppo la morte non fa più effetto sulla popolazione, a volte la gente sembra quasi essersi abituata a questo stato di cose”. È un racconto drammatico quello che arriva da un testimone diretto della crisi in Burundi, che chiede di rimanere anonimo per motivi di sicurezza. Tensioni e violenze attraversano il Paese da fine aprile, quando il presidente Pierre Nkurunziza ha annunciato di volersi presentare alle elezioni per ottenere un terzo mandato, formalmente proibito dalla Costituzione, ma ottenuto nel contestato voto di luglio scorso. In poco più di sei mesi la repressione delle manifestazioni di protesta da parte di polizia ed esercito, un tentativo di golpe, i raid nei quartieri protagonisti della contestazione e infine gli scontri tra truppe lealiste e militari ammutinati hanno provocato centinaia di morti. Solo nello scorso fine settimana le vittime sono state 87 dopo l’attacco contro alcune basi militari nel quartiere di Ngagara e la reazione dell’esercito.

Appello alla pace. “La Chiesa locale ha chiesto che si possano almeno seppellire le vittime in maniera umana – ricorda la nostra fonte – senza differenziare tra le due parti e in occasione della solennità dell’Immacolata, al santuario mariano di Mugera, la conferenza episcopale si è rivolta a tutti chiedendo moderazione e dialogo”. Un appello che è stato ripetuto più volte negli scorsi mesi dalle istituzioni internazionali, Nazioni Unite e Unione Africana in testa, ma che è di fatto rimasto senza risposta. “Il governo – è la ricostruzione – non vuole accettare un dialogo allargato a tutti, vuole tenerne uno più limitato e non gradisce interferenze”. D’altra parte, anche l’opposizione ha cambiato natura nel corso delle settimane. “All’inizio si sono tenute manifestazioni pacifiche, si è fatto appello al boicottaggio del voto e chiesta la formazione di un governo di transizione – continua la testimonianza – a cui gli oppositori avrebbero voluto partecipare, ma non sono stati ascoltati. Ora, tenute le elezioni, il regime si arrocca sempre più e quella che era un’autodifesa dell’opposizione dalle violenze, si è trasformata in azioni d’attacco”.

Paure diffuse. Centro dei disordini, continua l’interlocutore, “è soprattutto la capitale, in particolare alcuni quartieri, ma la crisi economica da qui si estende al resto del Paese” e contribuisce, insieme all’insicurezza, alla fuga di molti cittadini all’estero.

Secondo le Nazioni Unite sono già oltre 200mila i rifugiati in Rwanda, Tanzania e Repubblica Democratica del Congo.

Un elemento di instabilità in una regione già attraversata da tensioni e che ancora porta i segni delle gravi crisi dei decenni scorsi. Tra queste, il genocidio ruandese del 1994 e le violenze che anche in Burundi hanno diviso la popolazione di origine hutu da quella di origine tutsi: scenario di cui molti temono il ritorno. “Oggi non siamo a quel livello – spiegano – ma la paura esiste, ci si ricorda dei massacri del 1972 e di quelli del 1993: un trauma che non è stato ancora rimosso dalla memoria collettiva”. Solo negli anni 2000, in effetti, la guerra civile burundese ha avuto realmente fine, grazie proprio a quegli accordi siglati ad Arusha, in Tanzania, e che ora – denuncia la società civile – il terzo mandato di Nkurunziza mette a rischio.

Mediazione necessaria. Le speranze di evitare una nuova escalation restano affidate alla comunità internazionale. Il primo appello, chi parla lo rivolge alle Nazioni Unite: “Nella Repubblica Democratica del Congo, oltre il confine, c’è una missione di pace di decine di migliaia di uomini [la Monusco, forte di circa 20 mila unità, ndr], potrebbe essere inviata qui. Finora, però, il Consiglio di sicurezza, che è stato convocato più volte, è rimasto titubante…”. Un ruolo può giocarlo però anche l’Unione Europea, che ha incontrato l’8 dicembre una delegazione governativa per richiamarla al rispetto dei diritti umani: in gioco c’è tra l’altro, la conferma dei finanziamenti al Burundi per i prossimi cinque anni. Questa pressione pacifica potrebbe rivelarsi decisiva per risolvere il conflitto, mentre l’alternativa, secondo l’interlocutore, è un’incertezza ancora più grande dell’attuale: “Se fallisce la comunità internazionale, non si vede un altro mediatore possibile”, è la conclusione.

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