LibriMaribé Ruscica

In concomitanza con il passaggio delle consegne tra il governo uscente e quello nuovo di Mauricio Macri, un’inchiesta della Facoltà di diritto dell’Università di Buenos Aires e del Servizio penitenziario rivela che l’85% dei detenuti che studiano non torna in carcere. Questa consapevolezza dovrebbe spianare la strada a una politica di Stato in grado di sostenere l’istruzione universitaria nelle carceri e consentire l’effettivo accesso all’istruzione elementare e media per un numero sempre maggiore di detenuti. Secondo quanto emerge dal Rapporto, reso noto dal quotidiano “Clarin”, il tasso di recidività dei detenuti che studiano in prigione è inferiore di quasi tre volte rispetto a quello dei detenuti che non studiano (15% contro 40%). Il che vuol dire che la grande maggioranza non torna a delinquere.

L’Università introduce in carcere una logica diversa e i suoi effetti superano qualsiasi proposta “risocializzante”. Così vengono descritti nel servizio di “Clarín” i benefici del programma d’istruzione universitaria “UBA XXII “ che ha compiuto 30 anni in Argentina e che rappresenta un’iniziativa “d’avanguardia” anche a livello internazionale. Si parla di 3.000 alunni e di 500 laureati e si indicano le Facoltà di diritto, sociologia e economia come quelle con il maggiore numero d’iscritti.

“Non è la punizione che trasforma il comportamento umano ma l’istruzione. L’università aiuta a ricostruire l’umanità che il carcere distrugge”

afferma uno studente, detenuto nel carcere di “Villa Devoto”, intervistato dal giornalista Alfredo Dillon nel servizio pubblicato da “Clarin”.
Il problema è che i detenuti in grado di accedere all’istruzione universitaria rappresentano ancora una minoranza di appena il 2% perché il 91% della popolazione carceraria non ha finito la scuola media. La legge 26.695 che è in vigore dal 2011 e obbliga lo Stato a garantire che i detenuti concludano la scuola in carcere, non sembra di facile applicazione: di certo c’è che attualmente studia soltanto la metà dei detenuti.
Va detto che in Argentina le questioni che riguardano la situazione dei carcerati sono sempre complesse perché vengono a contatto modi di pensare diversi e perché l’efficacia di qualsiasi misura dipende, in definitiva, dalla gestione del Servizio penitenziario.

Non passano inosservate le preoccupazioni che in questo senso ha espresso Papa Francesco, ma a causa della crescente insicurezza non pochi sembrano attirati dal discorso sulla “mano dura contro la delinquenza”. Infatti, il richiamo sindacale dei detenuti che hanno chiesto la garanzia dello Stato per uno stipendio minimo in cambio del lavoro in carcere – rifiutato lo scorso mese dalla Corte Suprema di Giustizia per “mancanza di rappresentazione sindacale” dell’associazione che esigeva il “salario” – ha innescato proteste di molti settori. Nessuno discute, invece, il dovere legale dello Stato di garantire l’istruzione dei detenuti, destinata a offrire uno spazio di libertà – almeno di pensiero – a chi deve scontare una pena in prigione.

È stata la Chiesa argentina a ricordare – nel documento “No al narcotraffico, sì alla vita piena” diffuso nei giorni scorsi – il dramma che rappresenta oggi “la piaga della droga” per molti giovani argentini indotti alla criminalità.

“Esiste una grande distanza tra il grado di responsabilità del narcotrafficante e quello del ragazzo povero utilizzato per spacciare la droga. Dobbiamo prenderci cura di questi giovani spacciatori affinché non si scarichi su di loro tutto il rigore della pena”,

hanno avvertito i vescovi, conoscitori dei tempi difficili che dovrà attraversare l’Argentina se davvero vuole voltare pagina e lottare contro la droga, senza criminalizzare i poveri.

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