profughiDi Patrizia Caiffa

L’inverno ha appena accennato i primi soffi di vento gelido nella valle che separa il confine tra Grecia e Macedonia e già i profughi, durante la notte, bruciano tutto ciò che trovano – rami secchi o immondizia – per provare a scaldarsi. I più deboli e malati sono in cura dalla Croce Rossa per ipotermia. Idomeni, il paesino noto alle cronache per le marce epiche dei disperati che percorrono la “rotta balcanica” dalla Turchia fino al cuore dell’Europa. Da questa strada ne sono arrivati oltre 700mila quest’anno, la maggior parte è riuscita a passare verso i Paesi del Nord. Quelli che arrivano ora sono i più poveri e disperati, quelli che hanno pochi soldi per la tratta in mare: con il mare grosso è più pericoloso, quindi costa meno. Sono anche i più sfortunati, perché pagano il prezzo più alto della chiusura delle frontiere seguita agli attentati di Parigi. Ora al campo di Idomeni, a 600 km da Atene, sono circa 2.000/2.500, suddivisi in cinque grandi tende dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, più una per i bambini e un paio per lo stoccaggio e la distribuzione degli aiuti. I profughi arrivano qui in bus o automobile da Atene, poi percorrono a piedi l’ultimo chilometro che li separa dalla frontiera macedone, che oltretutto sta costruendo un’alta recinzione. Prima del 13 novembre sostavano nel campo pochissimo tempo. Ora le forze dell’ordine lasciano passare solo siriani, afghani e iracheni  – le nazionalità che riescono più facilmente ad accedere all’asilo – e nel campo rimangono tutti gli altri: quelli che fuggono dal Pakistan, dal Bangladesh, dai Paesi africani, i cosiddetti “migranti economici”. Le minacce più pressanti sono quindi due: l’inverno in arrivo e la tensione, la rabbia e la frustrazione che sta salendo. Da giorni circa 200 persone protestano con cartelli tipo “Uccideteci o aiutateci”, “Noi non siamo terroristi”; undici si sono addirittura cuciti le labbra in segno di protesta; sono scoppiati tafferugli con la polizia. Domenica hanno cercato di sfondare la recinzione, c’è stata una sassaiola contro l’esercito macedone e la polizia greca. Nel campo, se va bene, si mangia una zuppa o un piatto di riso caldo una volta al giorno, distribuiti dalle organizzazioni umanitarie. La Caritas, tre volte a settimana, porta coperte, maglie termiche, scarpe, kit di generi alimentari e sanitari.  “La situazione è peggiorata – racconta da Idomeni Rino Pistone, di Caritas Hellas – e rischia di aggravarsi con il prolungarsi della permanenza e dei disagi. Chi ha i soldi tenta un’altra strada, chi non li ha sta pagando lo scotto della chiusura delle frontiere”. Nel frattempo i leader europei hanno deciso di dare 3 miliardi di euro alla Turchia per ospitare 2,2 milioni di profughi siriani. Vale a dire: non permettere più che si imbarchino verso l’Europa.

Con le frontiere chiuse il 30/40% dovrà tornare in Grecia. “Il flusso in questi ultimi giorni è diminuito molto – conferma da Atene Danilo Feliciangeli, operatore di Caritas italiana – la guardia costiera turca fa molti più controlli”. Nel centro della capitale greca ci sono due tendopoli governative con centinaia di profughi. Prima sostavano due/tre giorni. Ora si rischia che debbano rimanere di più. Nonostante l’impatto altissimo sui greci, già provati dalla crisi, la risposta è stata di grande solidarietà.

Tra i profughi, avverte Feliciangeli, “c’è ora una grossa paura di essere arrivati troppo tardi e di rimanere bloccati qui”.

“La notte degli attentati moltissimi sono fuggiti di corsa, perché hanno immaginato le ripercussioni. Temiamo che a breve chiuderanno le frontiere per tutti. Se accadrà, il 30/40% potrebbe essere rimandato in Grecia”. Secondo il piano europeo – che però non è ancora decollato o rischia di fallire – quelli che verranno schedati negli hot spot, dovranno tornare nel primo Paese di approdo, con il rischio che tutto ciò si trasformi in un boomerang per i Paesi della sponda nord del Mediterraneo.

Dalla Cei 790mila euro per l’emergenza profughi. La Caritas, per far fronte all’emergenza, ha ricevuto un finanziamento di 790mila euro dalla Cei, di cui 300mila per i profughi alle frontiere di Grecia, Macedonia e Serbia e il resto per strutture d’accoglienza in risposta all’appello del Papa. Caritas italiana supporta Caritas Hellas, che per l’inverno sta incrementando l’offerta di alloggi: 200 posti letto presso alberghi e altre strutture ad Atene e altri 200 nell’isola di Lesbos, soprattutto per famiglie con bambini, anziani o persone vulnerabili. Da maggio ad oggi ne hanno già accolti 200. “Se le frontiere rimarranno aperte staranno pochi giorni, altrimenti dovremo pensare ad un’accoglienza più lunga”, precisa Feliciangeli: “Stiamo aprendo un centro diurno per informazioni, docce calde, vestiario e organizzeremo corsi di lingua e di formazione professionale”.

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