Di Giovanna Pasqualin Traversa

Non ha usato giri di parole Papa Francesco nella sua terza e ultima giornata in Kenya, oggi 27 novembre. Due discorsi intensi e appassionati, in spagnolo: il primo visitando la baraccopoli di Kangemi che ospita una popolazione multietnica di 100mila poveri espropriati del diritto a un’abitazione dignitosa. Il secondo, interamente a braccio, ai 70mila giovani nello stadio Kasarani. Parole forti in un clima festoso colorato da costumi, danze e canti locali. Nel pomeriggio Francesco ha raggiunto l’Uganda, seconda tappa del suo viaggio apostolico in Africa, nel 50° della canonizzazione dei martiri di Namugongo che il Papa ha ricordato nel suo discorso alle autorità del Paese definendoli “eroi nazionali”

Papa Francesco visita il quartiere povero di Kangemi (Nairobi, 27 novembre 2015)

Incontrando gli “ultimi” dello slum di Kangemi – una distesa di baracche di legno e latta senza acqua potabile, servizi igienici essenziali, elettricità, raccolta rifiuti e strade – il Papa ha denunciato

la “terribile ingiustizia dell’emarginazione urbana”, “l’ingiusta distribuzione del terreno” e il dramma dello “accaparramento delle terre”, oltre alla mancanza di accesso per questo popolo delle bidonville alle infrastrutture e ai servizi di base. A partire dall’acqua potabile.

Forti le parole di Francesco contro la violenza e le organizzazioni criminali al servizio di interessi economici o politici, che

“utilizzano i bambini e i giovani come ‘carne da cannone’ per i loro affari insanguinati”,

e contro le “nuove forme di colonialismo”, tra cui le pressioni affinché si adottino “politiche di scarto come quella della riduzione della natalità”. Dal Papa la richiesta di una “rispettosa integrazione urbana” e il richiamo alle tre “T”: tierra, techo, trabajo, per ribadire che “il debito sociale, il debito ambientale con i poveri delle città si paga concretizzando il sacro diritto alla terra, alla casa e al lavoro”.
Ogni essere umano è più importante del dio denaro”, ha quindi ricordato soffermandosi sulla

“saggezza dei quartieri popolari”, ricchi di “valori evangelici che la società del benessere, intorpidita dal consumo sfrenato, sembrerebbe aver dimenticato”; valori che “non si quotano in Borsa, valori con i quali non si specula né hanno prezzo di mercato”.
Nello stadio gremito, Francesco ha messo da parte il discorso preparato e ha preferito rispondere a braccio alle sei “sfide” che due giovani, Linette e Manuel, gli hanno proposto: tribalismo, corruzione, reclutamento terroristico di giovani radicalizzati, sfide della vita, uso dei media nell’evangelizzazione, abbandono familiare.

“Il tribalismo “distrugge una nazione” e “può essere vinto soltanto con l’ascolto, con il cuore e con la mano”; è “un impegno di tutti i giorni” la risposta alla prima sfida.

Francesco è il Papa dei gesti: di qui l’invito a “prenderci tutti per mano contro il tribalismo. Tutti siamo un’unica nazione”, ha ripetuto due volte prendendo le mani di Linette e Manuel, uno per parte, e invitando tutti, compreso il presidente Uhuru Kenyatta e le autorità, ad imitarlo. “Ogni volta che accettiamo una tangente, una bustarella, e la mettiamo in tasca, distruggiamo il nostro cuore, la nostra personalità la nostra patria”, la seconda riflessione del Papa accompagnata dall’invito ai giovani a non rassegnarsi alla corruzione diffusa, presente anche in Vaticano ha aggiunto, e ad opporsi: “Se non cominci tu, non comincia il tuo vicino”.
Il reclutamento da parte dei fondamentalisti “è un pericolo sociale”, dipende da un sistema internazionale “ingiusto, che ha al centro dell’economia non la persona, ma il dio denaro:

“La prima cosa che dobbiamo fare per evitare che un giovane sia reclutato o che cerchi di farsi reclutare è istruzione e lavoro”.

Gesti, sorrisi, vicinanza sono per il Papa il miglior mezzo di comunicazione ed evangelizzazione, “più contagiosi di qualsiasi rete televisiva”. Il suo pensiero ai figli che non hanno conosciuto l’amore di una famiglia si traduce in un appello: “La famiglia è così importante. Difendete la famiglia! Difendetela sempre”. Infine l’invito, quando il mondo sembra caderci addosso, a guardare la croce,  una confidenza e un altro gesto significativo: “In tasca porto sempre due cose: un rosario per pregare” e “una piccola Via Crucis”. “Con queste due cose – ha concluso Francesco estraendole dalla tasca e facendole vedere ai presenti – mi arrangio come posso… (faccio del mio meglio)” e “non perdo la speranza”.

I martiri, “sia cattolici che anglicani, sono autentici eroi nazionali”,

ha detto questa sera, appena arrivato in Uganda, incontrando il presidente, le autorità e il Corpo diplomatico nella State House di Entebbe, e insegnano a tutti “a cercare la verità, a lavorare per la giustizia e la riconciliazione, e a rispettarci, proteggerci e aiutarci reciprocamente come membri dell’unica famiglia umana”. Richiamando “l’impegno eccezionale” del Paese nell’accogliere i rifugiati, il Papa ha osservato che di fronte alla “cultura dello scarto” il modo in cui affrontiamo il fenomeno migratorio è una prova della nostra umanità, del nostro rispetto della dignità umana e, prima ancora, “della nostra solidarietà con i fratelli e le sorelle nel bisogno”. Francesco ha quindi incontrato i catechisti e gli insegnanti, che ha esortato ad essere anzitutto testimoni della bellezza della preghiera e del “potere della misericordia e del perdono”, ha ringraziato per l’impegno di portare il Vangelo “ad ogni villaggio e casolare del Paese”, e ha incoraggiato a proseguire “senza paura” la loro missione.

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