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ISIS, il terrore che si muove sulle vie di Damasco…e non solo. Ne parliamo con la Prof. Michela Mercuri

michela mercuri“Alcuni pensano che la società moderna sarà in perenne mutamento […] Quanto a me, io temo che finirà con l’essere troppo immobilizzata nelle stesse istituzioni, negli stessi pregiudizi […] che l’umanità si troverà bloccata e ingabbiata; che la mente oscillerà eternamente avanti e indietro senza generare idee nuove; che l’uomo dissiperà la sua forza in oziose, solitarie frivolezze; e che pur essendo sempre in movimento l’umanità cesserà di avanzare.” A. de Tocqueville.
Alla luce degli ultimi tragici eventi di Parigi, abbiamo deciso di capire in maniera puntuale e precisa ciò che sta realmente accadendo nel mondo, con uno sguardo particolare sulla delicata situazione in Medioriente. Lo faremo con l’ausilio della Prof.ssa Michela Mercuri, Docente di Storia Contemporanea dei Paesi Mediterranei, dell’Università degli Studi di Macerata. L’abbiamo intervistata.

MS:Qual è la situazione in Medioriente, in particolar modo in Siria?
Dopo le rivolte arabe del 2001, ogni Stato del Nord Africa e del Medio Oriente che è stato interessato da questo fenomeno ha intrapreso una traiettoria peculiare. Per questo motivo si parla di “primavere arabe” al plurale, dunque. In Egitto, dopo le prime vere libere elezioni del paese del 28 Novembre 2011, che hanno sancito la vittoria del partito “Libertà e Giustizia”  dei Fratelli Musulmani, abbiamo assistito nel 2013 ad un colpo di Stato militare e ad un ritorno del potere militare con il generale al-Sisi alla guida del paese. L’Egitto oggi è guidato, dunque, da una nuova dittatura e questo segna un ritorno al passato e una involuzione del percorso di apertura alle istanze democratiche. La Tunisia, invece, dopo la caduta di Ben Ali ha visto delle libere elezioni ed un’alternanza di partiti (islamici e laici) al potere. Potremmo dire che la Tunisia è il paese in cui l’esperimento democratico è meglio riuscito, tanto che viene considerata all’unanimità dagli osservatori un’eccezione di successo nel prisma comparativo, spesso fallimentare, delle primavere arabe. Nonostante ciò il paese ha visto saltare molti degli equilibri relativi all’apparato di sicurezza, con un conseguente ampliamento dello spazio di manovra dei gruppi eversivi e un forte aumento dei fenomeni terroristici – anche per la sua collocazione geografica a cavallo fra la Libia e l’Algeria, da sempre considerata una zona franca per gli jihadisti. La Libia, altro protagonista delle rivolte arabe del 2011, invece, è senza dubbio un failed State, diviso tra due governi e più di 1000 bande di miliziani che controllano alcune aree del paese. Infine la Siria, oggi, la maggiore incognita dell’area dopo quasi 5 anni di guerra, più di 250.000 vittime e 7 milioni di sfollati – oltre alla radicata presenza dello Stato Islamico in alcune aree del paese-  ha visto anche una sorta di “internazionalizzazione del conflitto” con l’intervento di attori esterni dalla Russia agli Stati Uniti, passando per alcuni dei principali attori regionali, Iran e Arabia Saudita. A mio avviso i player internazionali coinvolti nel conflitto più che trovare una soluzione alla crisi e mettere in campo una coalizione capace di combattere l’IS in Siria, come anche in Iraq, portano avanti una personalissima proxi war  che sta solo acuendo la complessità della situazione. Il caso del jet russo abbattuto dalla Turchia, con tutte le nefaste conseguenze che potrebbe avere, è solo l’ennesimo esempio.

MS: Qual è la radice del problema, da dove nasce tutto?
Per capire la genesi delle attuali problematiche del paese sarebbe necessario andare a ritroso nel tempo e ripercorrere la storia recente della Siria. Brevemente potremmo dire che, nel corso della sua storia antica e moderna, la Siria ha ospitato minoranze etniche e religiose ed è stata la culla delle tre più grandi religioni monoteiste: l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam. Durante i secoli di occupazione, e sino ai recenti anni di indipendenza, le minoranze in hanno avuto un ruolo importante nel paese, sia durante la liberazione dagli Ottomani sia durante quella dal mandato francese nel 1944. Nel 1970, però, la situazione politica in Siria ha subito una radicale svolta quando il ministro della Difesa Hafiz al-Asad, con un colpo di stato militare rovescia la dirigenza del partito e assume il ruolo di primo ministro e, nel 1971, quello di presidente. Gli alawiti (minoranza sciita) conquistano così il potere, prima con Hafiz e poi con suo figlio Bashar al -Asad, governando, di fatto, per quasi 45 anni su una popolazione a maggioranza sunnita (circa l’80%). Per anni i siriani hanno sperato cha gli Assad potessero portare stabilità e libertà dopo i travagliati anni ‘50 e ‘60, durante i quali diversi colpi di stato spinsero il paese in un incerto conflitto militare. Invece durante i loro governi, come peraltro è accaduto in molti altri paesi dell’area, corruzione e limitazioni delle libertà hanno sempre prevalso sulla ricerca di possibili soluzioni democratiche, fomentando la rabbia e l’ostilità contro il regime che, però, ha mantenuto il potere attraverso le consuete misure impiegate da una dittatura: eliminare il dissenso attraverso la censura dei media, mettendo a tacere gli oppositori e i critici ed impedendo la libertà di parola e di espressione politica. Ciò ha creato un’atmosfera di paura e di risentimento nei confronti degli alawiti e della famiglia Assad in particolare. Il conflitto in Siria è iniziato come una protesta contro la corruzione che ha rovinato ogni aspetto della vita dei siriani, minandone la libertà. Il popolo, inizialmente si è sollevato (come in Tunisia ed Egitto) per chiedere riforme. La mancanza di risposta a queste richieste è stata seguita da una grave e prolungata azione militare contro i manifestanti che ha drammaticamente portato ad un incancrenirsi della situazione.

MS: Come siamo arrivati a questa drammatica situazione attuale?
Mi riallaccio alla domanda precedente. Dopo le inziali proteste del 2011, la risposta violenta della polizia e del governo siriano ha fomentato le opposizioni che si sono organizzate in un Consiglio nazionale siriano e in un Esercito siriano libero (FSA). Il governo lungi dall’aprire alle richieste dell’opposizione, ha risposto con repressioni crescenti con conseguente escalation di morti e violenze. Sfruttando la frammentarietà della situazione, come spesso accade (e la Libia ne è un altro drammatico esempio) sono penetrati dai porosi confini del paese gruppi jihadisti e qaedisti che si sono uniti ad alcune milizie già presenti nel territorio. In questo contesto hanno trovato strada anche i miliziani del califfato islamico, entrati in Siria dal confine iracheno nel 2013 e avanzando, poi, nell’intero est del paese, hanno stabilito la propria capitale a Raqqa e si sono impossessati dei principali campi di estrazione di petrolio e gas.

MS: Come è riuscita l’isis a penetrare in Siria e in numerosi luoghi del Medioriente?
Anche in questo caso è bene fare un passo indietro, per lo meno fino al 2003 quando il network terroristico del giordano Abu Mussab al Zarqawi, già attivo dagli anni ‘90, pone le sue basi operative in Iraq, stringendo rapporti organici con Al Qaeda e Osama Bin Laden e dando vita al gruppo di “Al Qaeda in Iraq”. Dopo la morte di al Zarqawi, ucciso in un raid aereo americano nel giugno 2006, il movimento intensifica le proprie attività incrementando il numero dei miliziani e, pur restando sempre associato ad Al Qaeda, assume un nuovo nome: “Stato islamico dell’Iraq” (ISI). Nel 2010, al-Baghdadi, da poco liberato dalle carceri irachene di Camp Bucca, diventa leader del gruppo terroristico ISI. Con al- Baghdadi l’organizzazione si radicalizza ulteriormente iniziando a rivendicare un numero crescente di attentati e diventando il più vasto e aggressivo gruppo terroristico operante nel paese. Il vero sviluppo del movimento, però, ha inizio con le primavere arabe e con la guerra civile in Siria. L’ISI riesce a penetrare nel caos siriano dapprima stabilendo strette relazioni con il Fronte al-Nusrah, anch’esso affiliato ad Al Qaeda e poi, nell’aprile del 2013, adottando il nome di ISIL (“Stato islamico dell’Iraq e del Levante”) in nome del quale inizia la sua estensione anche nella vicina Siria. Il 29 giugno 2014, il gruppo di jihadisti dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante annuncia la creazione di un Califfato islamico nei territori controllati tra Siria e Iraq – lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS) – nominando come proprio leader proprio Abu Bakr al-Baghdadi, “il califfo dei musulmani”. Il gruppo jihadista matura, così, una strategia più ampia e non più circoscritta allo specifico contesto iracheno. Oggi controlla una porzione di territorio – tra Siria e Iraq di circa 35mila chilometri quadrati e con oltre 6 milioni di persone. La risonanza mediatica di questo “folle progetto” ha attirato anche altri gruppi terroristici di altri paesi. Si pensi soltanto alla Libia in cui alcune milizie locali si sono affiliate allo Stato islamico (semplicemente, potremmo dire, “cambiando casacca”) conquistando, sempre in nome del califfato, alcune aree del paese tra cui Sirte.

MS: La “Guerra Santa” è l’unico vero motivo che spinge i terroristi a compiere questi gravi atti?
Potremmo dire, con un po’ di approssimazione, che tale argomentazione è valida prevalentemente per i combattenti. All’interno dello Stato Islamico esiste, infatti, un notevole iato tra il fervore religioso della base e il laicismo dei vertici. Spesso i terroristi, o miliziani reclutati, che dir si voglia, hanno obiettivi ben diversi dalla loro classe dirigente, con i primi attivamente impegnati nel jihad e i secondi, gestori materiali della macchina amministrativa, guidati da ragioni eminentemente geopolitiche ed economiche. Si pensi soltanto che, malgrado una propaganda di fervente matrice islamica, i principali ministri e generali del califfato sono di estrazione laico-socialista. Al contrario i cosiddetti foreign fighters, in grande maggioranza musulmani ma anche cristiani, ebrei, atei (si pensi solo che 3mila europei in Siria e Iraq combattono per lo Stato Islamico) si arruolano in Daesh perché attirati dalle apocalittiche teorie religiose del leader al-Baghdadi, per convinzione in taluni casi, o per altri e diversi motivi (giovani ai margini della società che si radicalizzano, ma anche giovani della classe borghese in cerca di “emozioni forti”). Forzando un po’ la mano potremmo addirittura dire che l’elemento religioso serve ai dirigenti del califfato soltanto per sedurre giovani o al massimo per accreditarsi nei confronti della popolazione locale ma spesso l’interesse economico è preminente. Cito solo alcuni numeri per dare un’idea:  l’ISIS ha 2 miliardi di dollari di patrimonio.  Lo Stato Islamico è il gruppo terroristico più ricco al mondo. La sola vendita del petrolio frutta un milione di dollari al giorno. Tanto basta per capire il giro di affari del califfato.

MS: Ci troviamo di fronte ad una terza guerra mondiale a pezzi?
Che si voglia o meno usare il termine “guerra” credo sia necessario prendere coscienza del fatto che esiste sì un solo nemico, per quanto proteiforme, ma contro il quale è necessario combattere su due fronti geograficamente distanti ma complementari. Il primo, e la carneficina di Parigi ce lo ha drammaticamente rivelato,  è quello interno che si gioca, per ora, in Europa. Volendo utilizzare il termine guerra, potremmo dire che si tratta di una guerra asimmetrica nella quale siamo costretti a difenderci da un nemico non sempre identificabile, e questo ci pone in una situazione di palese svantaggio. Sul fronte europeo non possiamo combattere né con i boots on the ground, né con gli eserciti né con i raid aerei. Possiamo vincere soltanto rafforzando la coesione interna agli Stati dell’Unione europea, aumentando gli sforzi per una politica estera comune che sia in grado di dialogare con una sola voce, condividendo forze e strutture di intelligence. Infine, sarà necessario incrementare in maniera sensibile le misure di sicurezza, e questo comporterà l’inevitabile accettazione di una qualche limitazione delle nostre libertà, per poterle però esercitare di nuovo con orgoglio e senza paura. Al contempo sarà necessario continuare a combattere in maniera più incisiva anche sull’altro fronte, quello esterno, per così dire, che si trova nel quadrante mediorientale. Fino ad oggi più che una strategia di guerra, gli attori esterni coinvolti nel conflitto (Russia, USA, Arabia Saudita, Iran e Turchia, solo per fare alcuni nomi) hanno solo combattuto una guerra per procura, dettata dai loro personali interessi: gli occidentali prima contro Assad e contro l’ISIS, i sauditi per il contenimento dell’influenza iraniana, gli iraniani per il  contenimento dell’influenza saudita,  i russi per il salvataggio del dittatore, i turchi per il contenimento dei curdi. Tutto questo, per ora, non portato a nulla e non potrà esserci soluzione senza una reale volontà comune delle parti.

MS:Ci sono delle possibili soluzioni ai molti conflitti che imperversano nel mediterraneo? La pace è possibile?
Non è una domanda semplice ed anche qui va detto che per ogni conflitto andrebbe ricercata una soluzione differente da attuare sul terreno, una sorta di road map capace di prendere in considerazione le diverse problematiche e le diverse istanze che ci sono in ogni paese caratterizzato da instabilità (Siria, Libia, Iraq etc.). In linea generale però potremmo dire che solo supportando un compromesso politico capace di rispecchiare la natura della distribuzione del potere sul terreno e lavorando per un processo di trasformazione politica endogena – e dunque totalmente slegata dagli intessi esterni – sarà possibile aprire la strada per un reale processo di transizione. Questo richiede, a livello internazionale, una coalizione forte, unita, capace di mettere da parte i personalismi per combattere il nemico comune, operazione fin qui tragicamente fallita. Tuttavia, e credo che questo sia il punto nodale,  nessun negoziato sarà davvero credibile senza l’arresto del flusso multidirezionale di armi verso questi paesi e il contenimento della lucrosa economia di guerra.