riflessioneDIOCESI – Guardando il notiziari di questi giorni, la mia attenzione si è concentrata su un servizio realizzato da un reporter italiano. Si parlava dell’inarrestabile esodo di migliaia di profughi diretti ai confini dell’Europa.
Una moltitudine di uomini, di donne, fuggiti dal proprio paese in guerra, per varcare il confine del nostro continente, verso la libertà. Il giornalista monitorava la situazione in tempo reale, ad un certo punto, inizia a porre qualche domanda ad alcuni tra le centinaia di profughi in attesa di oltrepassare il confine.
Tra le persone intervistate c’era un giovane, molto probabilmente un mio coetaneo; inizia a raccontare la sua storia: tre anni lontano da casa, fuggito dal suo paese, la Siria, martoriata da una sanguinosa guerra che non accenna ad attenuarsi e non risparmia nessuno. Nawal ha scelto di non morire, ha preso il suo zaino e in pochi minuti ha cercato di mettere le cose più importanti, necessarie per un viaggio che lo avrebbe portato lontano…lontano dai suoi cari, dalle sue certezze, dalle sue abitudini , dalla sua quotidianità. Mentre mostrava al reporter il contenuto del suo zaino, s’imbatte in una camicia appallottolata, color sabbia. Il ragazzo esita un istante, poi la tira fuori e si commuove. Quella camicia stropicciata, molto semplice, aveva un grande valore per lui, era un regalo di sua madre. Quella camicia rappresentava il suo unico legame con la sua famiglia.
Proprio così, Nawal non ha notizie di sua madre e del resto della famiglia da circa tre anni, da quando è fuggito dalla Siria. Quella testimonianza mi ha colpito molto, mi ha letteralmente scosso. Per un istante ho provato ad immedesimarmi in quel giovane; fuggire dal mio Paese, perdere ogni contatto con la mia famiglia, perdendo ogni prospettiva, ogni speranza. Ciò che ha mosso tanti uomini -nostri fratelli- ad arrivare nei nostri paesi è certamente una sete di libertà,  un grido di aiuto che non può e non deve lasciarci indifferenti.

“Non dobbiamo lasciarci spaventare dal loro numero, ma piuttosto vederle come persone, guardando i loro volti e ascoltando le loro storie, tentando di rispondere meglio che possiamo alle loro situazioni. Rispondere in un modo che sia sempre umano, giusto e fraterno. Dobbiamo evitare una tentazione oggi comune: scartare chiunque si dimostri problematico”.

Questa storia mi ha lasciato una consapevolezza, Nawal ha scelto con coraggio, di non arrendersi, ma il suo “sacrificio” non può essere vanificato a causa delle nostre paure e dai nostri pregiudizi. Se continueremo ad erigere muri, che siano di cemento o di filo spinato o peggio ancor, quelli ideologici… non saremo in grado di ascoltare, non saremo in grado di essere cristiani. L’altro uomo, lo straniero, il povero, che entra prepotentemente nella vita di tutti i giorni e la sconvolge, non può non riguardarci. Ognuno, soltanto ascoltando le loro storie, guardando i loro volti segnati da così tante lotte per sopravvivere, dovrebbe sentirsi responsabile perché chiamato a rispondere all’appello altrui, a quella sete di libertà e giustizia, e trovarne una soluzione. Una soluzione che inizia dall’accogliere il nuovo venuto, prima di tutto, nell’intimità della propria casa, cioè nella propria mente, nel proprio cuore, ovvero nel trovare l’umiltà per riconoscersi uguali nel condividere la stessa umanità e per innalzarsi al loro livello, abbassando per un attimo i livelli frenetici della nostra vita e il volume alto della nostra voce, per assaporare la grandezza silenziosa di due occhi che non hanno più nulla se non quel che resta di una camicia color sabbia e di una piccola speranza racchiusa in uno zaino rovinato. Il problema dell’immigrazione non ha bisogno di tante parole, di idee per essere risolto, ma chiede ai singoli la capacità di ascoltare l’altro e di immedesimarsi in lui, scoprendosi nella sua stessa condizione: immigrati in viaggio, in un mare che è questa nostra terra che cambia ogni giorno, alla deriva, spinti dalla corrente di quello che sarà, aggrappati al coraggio della speranza. L’umiltà di ascoltare, di vivere sulla propria pelle le sofferenze altrui, di accogliere allora sono i primi passi della possibilità di trovare una concreta risoluzione, vivendo così “per servire ogni uomo e per servire a qualcosa” .

 

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