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Dopo Cuba e USA: responsabilità e dialogo. Ecco le vie di Francesco

mall_0001554pdi Fabio Zavattaro

C’è una immagine che può essere usata per raccontare il viaggio del Papa a Cuba e negli Stati Uniti: il riferimento che fa tra la bottega di quartiere, i piccoli negozi, e i centri commerciali, i supermercati. La società oggi è sempre più simile a questi grandi complessi dove si trova di tutto ma dove si è perso il contatto personale, la fiducia, la conoscenza, la vicinanza. La piccola bottega rappresentava una sorta di oasi di fiducia, perché c’era un rapporto che era basato sull’amicizia. Oggi il mondo è un grande supermercato dove si compera tutto e dove anche la cultura ha acquisito una dinamica concorrenziale: “Non si vende più a credito e non ci si può fidare degli altri”. La cultura attuale sembra “stimolare le persone a entrare nella dinamica di non legarsi a niente e a nessuno. Non dare la fiducia e non fidarsi”.
Le parole del Papa contenute nei suoi 24 discorsi vanno proprio nella direzione opposta e chiamano alla responsabilità personale, al dialogo. Così a Cuba non solo si sofferma sul bloqueo, cioè sull’embargo che da oltre 50 anni colpisce l’isola, ma chiede un cambiamento di attenzione per costruire insieme – anche cubani dell’isola e coloro che risiedono fuori – un processo di riconciliazione nazionale. È il Papa che sottolinea che il cambiamento è possibile perché lo sguardo misericordioso di Cristo anticipa le nostre necessità, ci invita a superare i nostri pregiudizi, le nostre resistenze al cambiamento. I concittadini non sono quelli di cui si approfitta, si usa e si abusa. E la grandezza di un popolo, di una nazione, di una persona “si basa sempre su come serve la fragilità dei suoi fratelli”, perché “chi non vive per servire, non serve per vivere”.
Per Francesco la Chiesa è una realtà che serve, esce di casa, dai suoi templi, dalle sue sacrestie, per accompagnare la vita, sostenere la speranza, essere segno di unità. Francesco parla di “rivoluzione della tenerezza”, di una Chiesa che esce di casa per gettare ponti, abbattere muri, seminare riconciliazione.
Quando arriva negli Stati Uniti non cambia la linea dei suoi interventi, e in primo piano mette sempre la persona, la famiglia. Ai vescovi riuniti a Philadelphia per l’incontro mondiale dice che non è sua intenzione tracciare un programma, delineare una strategia, giudicare o impartire lezioni. Ma poi precisa: ci sono alcune questioni che non è lecito mettere a tacere, come la vicenda pedofilia, su cui torna nell’ultimo giorno della sua visita quando incontra cinque persone – tre donne e due uomini – vittime di abusi sessuali da parte di sacerdoti. E parlando sempre ai vescovi dice: mi vergogno profondamente. I crimini commessi e i peccati degli abusi sessuali contro i minori da parte di sacerdoti non possono essere mantenuti in segreto per lungo tempo. E promette che tutti i responsabili renderanno conto del loro crimine. Da queste persone, aggiunge a braccio, “ho ascoltato un lamento profondo; ho pregato con loro manifestando la partecipazione alla loro sofferenza”.
Francesco è il primo Papa che parla al Congresso americano, per di più il primo latinoamericano. Il suo è un discorso che guarda al nord America con gli occhi del sud del continente, per chiedere giustizia, solidarietà con le persone povere, rispetto dei diritti e delle libertà che hanno fatto grande l’America. Un discorso nel quale mette in risalto quattro figure di americani: Abraham Lincoln, Martin Luther King, Dorothy Day e Thomas Merton. Per dire tutta la sua preoccupazione per la “inquietante odierna situazione sociale e politica del mondo”, sempre più un luogo “di violenti conflitti, odi e brutali atrocità, commesse perfino in nome di Dio e della religione”. Per questo “dobbiamo essere particolarmente attenti ad ogni forma di fondamentalismo. È necessario un delicato equilibrio per combattere la violenza perpetrata nel nome di una religione, di un’ideologia o di un sistema economico, mentre si salvaguarda allo stesso tempo la libertà religiosa, la libertà intellettuale e le libertà individuali”. Così alle Nazioni Unite torna sul tema dei suoi predecessori: la pace e il dialogo. Certo laddove l’aggressore compie azioni conto la popolazione inerme occorre trovate risposte in grado di fermare l’operazione. Quella pace che la mattina dell’11 settembre 2001 un gruppo di terroristi ha cercato di mettere in soffitta con l’attacco alle Torri Gemelle: andrà poi a Ground zero per una preghiera ecumenica per le oltre duemilacinquecento vittime. Ma è anche occasione per guardare all’immigrazione, che sarà anche il tema dell’Assemblea del Palazzo di vetro. Francesco ripete che i muri non servono, non aiutano a capire le situazioni diverse. Muri e filo spinato che non riusciranno mai a fermare l’ondata di uomini e donna che si riversano nei Paesi del vecchio Continente.
Prima di lasciare Philadelphia, la messa con le famiglie e un Papa che chiede di creare una società che sia a favore della famiglia, la difenda e crei delle leggi che assicurino le condizioni minime per formarsi e svilupparsi. Vale la pena di lottare per la famiglia, dice Francesco, e la società cresce buona, forte e solida se cresce sulla bontà e sull’amore della famiglia, che è una fabbrica di speranza, di vita, di risurrezione. E poi, se non ci fosse la famiglia, non ci sarebbe nemmeno la Chiesa. Parola di Papa Francesco.