ColombiaDi Bruno Desidera
#LaPazEstáCerca (La pace è vicina), #VamosPorlaPaz. Sono questi gli “hashtag” nelle migliaia di tweet che in queste ore stanno facendo il giro del mondo per commentare lo storico e atteso accordo di pace tra il governo della Colombia e i guerriglieri delle Farc. Storico, perché nel Paese latinoamericano la guerra dura da più di mezzo secolo, ha provocato secondo accreditate stime 220mila vittime e 5 milioni di sfollati, i cosiddetti “desplazados”. Atteso, perché le trattative, nella sede “neutrale” dell’Avana, capitale di Cuba proseguono tra alti e bassi fin dal 2012 e proprio domenica scorsa, durante l’Angelus recitato a L’Avana, papa Francesco aveva detto senza mezzi termini: “Per favore, non possiamo permetterci un altro fallimento in questo cammino di pace e riconciliazione”. Un accordo, però, non condiviso da tutti, visto che un altro hashtag (#AcuerdoDeImpunidad, l’accordo dell’impunità) accompagna le furibonde reazioni dell’ex presidente Álvaro Uribe Vélez.
Strada in discesa per la firma dell’accordo. Mercoledì 23 settembre il presidente Juan Manuel Santos è volato a L’Avana per incontrare i capi delle Farc e dare il sospirato annuncio, con a fianco il presidente cubano Raoul Castro. L’accordo prevede un’amnistia per i delitti politici e la creazione di una “giurisdizione speciale per la pace” – integrata da magistrati colombiani, ma con la presenza di giuristi stranieri – che dovrà processare gli imputati per gli altri crimini, compresi quelli contro l’umanità. L’intesa firmata si aggiunge agli accordi già definiti in passato: la riforma rurale, la partecipazione politica degli ex guerriglieri e la produzione e vendita di droga. In pratica l’accordo sulla gestione giudiziaria del dopo-conflitto rappresentava l’ultimo “gran premio della montagna” in questa complessa corsa. Ora per raggiungere il traguardo la strada è in discesa e c’è anche una scadenza per la firma ufficiale, che nessuno mette più in discussione: il 23 marzo 2016.
La scommessa di Santos e la “spinta” di Francesco. Due persone forse, più di altre, meritano la “copertina” in questo momento. Il primo è, per forza di cose, il presidente Santos. Dopo la sua elezione, l’ex delfino di Uribe ha deciso di prendere le distanze dal predecessore e ha scommesso tutto sul processo di pace, basando su questo la sua campagna elettorale per la riconferma, anche se molti colombiani erano scettici sulle trattative. “In realtà – commenta Dimitri Endrizzi, docente di Relazioni internazionali all’Università ‘Externado de Colombia’ di Bogotà – Santos è un politico intelligente e si è accorto che la guerriglia era uscita assai indebolita dalla lotta senza quartiere portata avanti da Uribe. Ma siccome era impensabile estirparla del tutto, ha capito che l’accordo di pace era l’unico modo per liberarsi delle Farc, anche a costo di sembrare arrendevole verso di loro”. Prima della presidenza Uribe le Farc erano più potenti dell’esercito, ora invece sono ridotte ai minimi termini. Seimila uomini armati e novemila fiancheggiatori, secondo le stime ufficiali dell’Esercito colombiano. “E nel Paese godono di pessima popolarità – prosegue Endrizzi -. Comunque sia, si tratta di una splendida notizia”. La seconda persona che ha giocato un ruolo importante nella vicenda è papa Francesco. Non solo per l’ultima “spinta” di domenica scorsa. È vero che la Diplomazia vaticana ha avuto un ruolo meno “diretto” rispetto alla vicenda Stati Uniti-Cuba, ma negli ultimi mesi è stato un crescendo di esortazioni alla pace. Sullo sfondo la visita del papa argentino in terra colombiana, promessa dallo stesso Francesco la scorsa Pasqua con una lettera ai fedeli colombiani, prevista per il 2016 o il 2017. Anche la Comunità di S. Egidio, come è stato reso noto ieri, si è adoperata per il felice esito delle trattative.
Un lungo cammino di riconciliazione. I vescovi colombiani, poi, non hanno mai smesso di far sentire la loro voce, con momenti pubblici, dichiarazioni, o attraverso la recente Settimana di preghiera per la pace. In ogni caso, sempre tenendo conto che la pace non può prescindere da un cammino più profondo che deve attraversare tutta la società. “Negoziato e riconciliazione sono un binomio necessario” per costruire un futuro di pace, diceva solo qualche giorno fa monsignor Luis Alfonso Quiroga Castro, presidente della Conferenza episcopale colombiana (Cec) e arcivescovo di Tunja. L’arcivescovo di Villavicencio, monsignor Oscar Urbina Ortega, vicepresidente della Cec ha fatto notare: “Dobbiamo imparare ad avere fiducia l’uno dell’altro, altrimenti non possiamo costruire nulla. La sfiducia è uno dei costi più grandi provocati dal conflitto”. Per questo la Chiesa colombiana ha già avviato nel territorio percorsi di riconciliazione e non a caso è iniziato ieri a Bogotà il VII Congresso nazionale della Riconciliazione.
I dubbi sul ruolo dell’esercito. Non sarà una passeggiata, dunque gestire la nuova situazione. Decenni di guerra lasciano ferite profonde, non esiste tra i colombiani il ricordo di un Paese “in pace”. E oltre a mettere in conto che qualche scheggia estremista non deponga le armi, bisognerà vedere come il processo sarà accompagnato dall’esercito, ingrossato a dismisura in questi decenni (contava nel 2013 oltre mezzo milione di militari). “In gran parte l’esercito è ancora fedele a Uribe – fa notare Endrizzi -. Ed è evidente che una progressiva smobilitazione è destinata a far perdere potere ai generali. Tra l’altro proprio i militari dovrebbero collaborare con gli ex guerriglieri, per esempio nelle operazioni di sminamento”. Incognite che però non intaccano una verità di fondo: la strada imboccata è senza ritorno ed è l’unica che può liberare risorse per creare infrastrutture e per far concretizzare lo slogan – riferito alle grandi ricchezze climatiche e naturalistiche del Paese, ma un po’ beffardo – che campeggia all’ingresso del visitatissimo padiglione colombiano all’Expo di Milano: “Siamo un Paese fortunato”.

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