PapaNostro”. Lo ha ripetuto più volte Papa Francesco nei suoi discorsi: la nostra terra, il nostro popolo, la nostra cultura.

Sarà perché lui è di queste latitudini, è il primo vescovo di Roma che non viene dall’Europa, almeno in questi ultimi secoli di vita della Chiesa. Ma quel “nostro” voluto, ripetuto è un qualcosa di più di una semplice indicazione di appartenenza. È un messaggio che Francesco lascia a questo mondo latinoamericano. Sembra quasi dire: sono il Papa, risiedo a Roma, ma il mio cuore è qui in queste terre, dove sono cresciuto e dove ho svolto il ministero sacerdotale. E la gente di Cuba, ma prima ancora dell’Ecuador, della Bolivia, del Paraguay, del Brasile, hanno capito questa appartenenza latina. Forse c’è anche un po’ di quella “saudade” che, nella lingua brasiliana, vuol dire molto di più di nostalgia, desiderio di tornare.
Ma quel “nostro” è anche messaggio per le Chiese di “nonna Europa”, perché è volontà di portare un vento nuovo nel cammino delle Chiese del continente. Così al santuario della “Virgen de la Caridad del Cobre”, a Santiago, proclamata patrona dell’isola da Benedetto XV, Francesco parla di Maria che custodisce “le nostre radici, la nostra identità, perché non ci perdiamo sulle vie della disperazione”. L’anima del popolo cubano, afferma ancora il Papa latinoamericano, è “forgiata tra i dolori” ma le privazioni “non hanno spento la fede”, alimentata dalle “nostre” madri e dalle “nostre” nonne. E come se non bastassero i “nostri” già detti, ecco che Francesco aggiunge: “La nostra rivoluzione passa attraverso la tenerezza.

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