empatia“A mile in my shoes” (un miglio nelle mie scarpe). Si chiama così la prima installazione interattiva dell’Empathy Museum che apre i battenti domani, 4 settembre, a Londra, in occasione del Totally Thames Festival.
Perché prima di giudicare qualcuno bisognerebbe cercare di comprenderlo “mettendosi nelle sue scarpe”, nei suoi panni diremmo noi, per tentare di vedere il mondo attraverso i suoi occhi, le sue esperienze, i suoi sentimenti. Sembra paradossale che l’iniziativa, le cui installazioni dopo un periodo di permanenza sulle rive del Tamigi diventeranno itineranti in una sorta di tour mondiale (documentato da una Digital Empathy Library) veda la luce nella capitale di un Paese che negli ultimi tempi con le sue misure anti-immigrati e anti- stranieri non ha propriamente dato dimostrazione di altruismo e solidarietà, e che ora sembra volersi cimentare nel recupero della qualità delle relazioni umane. Ai passanti verrà proposto di indossare, a scelta, le scarpe di uno sconosciuto per poi percorrere un miglio di lungofiume ascoltando in una cuffia la sua storia. E chissà chi saranno questi “sconosciuti”. Forse cittadini comuni – studenti, lavoratori -, forse malati, anziani, emarginati, forse immigrati arrivati rischiando la vita dopo sofferenze e odissee inimmaginabili per i visitatori del museo.
Intanto, la fotonotizia che oggi campeggia sulla frontpage dell’edizione online del quotidiano inglese “The Independent” è quella del corpicino del piccolo siriano annegato sul bagnasciuga, a faccia in giù con l’acqua che gli lambisce il viso, accanto a quella del militare che lo porta in braccio, delicatamente, quasi per non fargli altro male. “Se queste immagini straordinariamente potenti di un bambino siriano morto su una spiaggia non cambieranno l’atteggiamento dell’Europa nei confronti dei rifugiati, che cosa lo farà?”, il titolo scelto. Noi aggiungeremmo: “E se fosse nostro figlio o il nostro nipotino?”. Empatia, appunto, e poi simpatia, compassione, nel senso etimologico dei termini, e appello alle coscienze perché qualcosa cambi.
Di fronte alla tragedia quotidiana di chi paga con la vita il suo sogno di sopravvivenza, in attesa del vertice straordinario sull’immigrazione del 14 settembre, ben venga, anche se appare un topolino di fronte a una montagna, il tentativo del museo londinese di cercare di recuperare almeno una parte di quanto abbiamo perduto in umanità. Una buona idea, a condizione che non si limiti ad un esercizio di retorica o al divertissement di un giorno.

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