ScuolaDi Alberto Campoleoni

Secondo i dati diffusi dal ministero dell’Istruzione gli studenti italiani che escono dal ciclo di studi superiore sono sempre più preparati. Infatti, quest’anno è ancora aumentata la percentuale dei promossi alla maturità e sono anche aumentati, in percentuale, i voti alti. Bene, viene da dire. Perché la mission della scuola è senz’altro quella di promuovere. Mettere cioè i ragazzi che la frequentano nelle migliori condizioni per affrontare le “sfide” che si offrono loro, garantire la conquista di competenze disciplinari e trasversali, più in generale abilitare ad affrontare la vita adulta. Una scuola che promuove è una scuola che funziona, a meno che, naturalmente, i risultati non siano “drogati”. Per questo è importante un sistema che valuti la scuola stessa e gli istituti, che lavori sulla possibile omogeneità di giudizi e risultati, anche per fugare i soliti dubbi (e le polemiche) di fronte a un classico delle notizie di fine anno: al Sud voti più alti che al Nord. Studenti più bravi? Prof con la “manica” più larga? Basta leggere i resoconti dei media per vedere dove corre il pensiero. Ma come – aggiunge qualcuno – i risultati Invalsi dicevano cose diverse…
Lasciamo le polemiche “regionali” e torniamo alle promozioni, sulle quali un’altra considerazione che circola è la seguente: se i promossi alla maturità sono così tanti, allora l’esame non serve. Come se l’esame dovesse essere per forza uno sbarramento, una diga, un filtro, la cui efficacia si misura dalle cose (persone) che trattiene. Senza banalizzare la questione della serietà delle prove, tuttavia è curioso questo revival di severità. E rivela un pensiero che accompagna spesso il mondo della scuola, considerata tanto più valida quanto più selettiva. Pensiero che anche qualche ministro del passato ha agitato promettendo una scuola sempre più esigente e severa.
A noi piace pensare – come detto – che la scuola che funziona è quella che promuove. Certamente una scuola “da prendere sul serio”, che al suo interno affina i meccanismi di valutazione dei processi e di armonia nel Paese, che sappia autovalutarsi e correggersi quando è il caso. E questo dice quanto sia importante lo sforzo nella direzione del sistema di valutazione nazionale, che dovrebbe comprendere anche – nei modi opportuni, si va per tentativi – l’operato dei docenti.
Piuttosto è fuori dalla scuola che qualcosa non funziona. Nei meccanismi di accesso all’Università e soprattutto in quelli che permettono (o dovrebbero permettere) l’accesso al mondo del lavoro, lo sbocco a quella “vita adulta” che resta nel mirino del percorso scolastico. Non possono non preoccupare, ad esempio, gli ultimi dati sulla disoccupazione diffusi dall’Istat a giugno, con una risalita (+0,2%) complessiva del tasso nel Paese (al 12,7%) e soprattutto con il dato relativo ai giovani che sale al 44,2% e tocca il livello più alto dall’inizio delle serie storiche mensili e trimestrali. Istat dettaglia in vario modo i numeri, ma la sostanza è che nel nostro Paese i giovani hanno motivo di sentirsi a disagio. Il lavoro ha a che fare col futuro e anche con la scuola, col percorso formativo in generale che al lavoro in qualche modo prepara. I dati sulla disoccupazione fanno pensare che qui stia lo “sbarramento”, altro che negli esami finali.
Occorre davvero fare di più in termini di politiche orientate ai giovani. La scuola fa la sua parte, ma finisce per arrendersi se la nostra Italia diventa sempre più un Paese per vecchi.

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