SudDi Lino Patruno

Il Rapporto Svimez sul Mezzogiorno conferma che non tutti i mali vengono per nuocere. Certo il Sud rischia davvero un cupo “sottosviluppo permanente” e non più temporaneo. Rischia il “deserto”. Le cifre sono tanto impressionanti quanto inoppugnabili. Ma se il Sud piange, l’Italia non ride. Perché l’illusione è che il Paese possa salvarsi anche se non si salva il Sud. Anzi che chissà quali magnifiche sorti raggiungerebbe se non ci fosse questa palla al piede.
Il Rapporto è una sveglia per tutti. E quando con un po’ d’azzardo dice che il Sud cresce meno della Grecia, ignora la Banca d’Italia secondo la quale anche il Centro Nord dal Duemila è cresciuto meno della pur negletta Grecia. A conferma che, nonostante i pregiudizi, l’Italia è un Paese molto più innervato da testa a piedi di quanto si creda. E che quella del Sud è una crisi certo molto più grave all’interno di un’Italia che non sta molto meglio. Andiamo tutti alla deriva, anche se chi più chi meno.
Il nemico è un egoismo sul quale mai nessuna nazione ha fondato la sua ricchezza. La convinzione che si possa essere regioni forti in un Paese debole. E l’idea che se trattengo un euro per me, mi sviluppo anche se gli altri non lo fanno. Le diseguaglianze sono un male per tutti, ripete anche papa Bergoglio. E il mondo lo conferma.
Un Veneto o una Lombardia che con i loro sicuri meriti siano le locomotive d’Italia, non sarebbero più che un satellite della Germania se l’Italia (Sud compreso) resta com’è. Il Sud del “deserto” è anche un grande mercato che acquista un quarto della produzione del Nord (che ne vende solo il 10% in Europa). Né si può andare da soli in una globalizzazione in cui contano solo i grandi numeri.
Ora il reddito del Sud è la metà di quello del Centro Nord. Gli occupati scesi al livello di 40 anni fa. A rischio povertà un cittadino su tre. E un dramma economico che diventa anche sociale col minimo storico di nascite dall’unità: non si fanno figli che sono fiducia nel futuro. I vecchi muoiono, i figli non nascono, i giovani partono (70mila l’anno, soprattutto laureati e diplomati, ma mentre quelli del Nord vanno all’estero in un esodo comune).
Certo è sbagliato parlare solo dei segni meno di un Sud che altrimenti sarebbe già in rivolta sociale. Il Sud ha misconosciuti primati produttivi, esporta nel 91% del mondo, ha eccellenze che non riescono a fare sistema anche per difficoltà di collegamenti che lo hanno penalizzato e continuano a farlo. La solidarietà familiare e il sommerso sono la sua sopravvivenza in un Paese in cui chi non evade scagli la prima pietra. Ma la deriva è continua e il crollo incombente. E ci vorranno 10 anni di crescita (ma quale?) solo per recuperare il perduto in un’Italia cui, secondo il Fondo monetario, ce ne vorranno venti.
Non c’è più niente da fare per un Sud destinato a Terzo Mondo? Deve rassegnarsi il Sud e deve rassegnarsi l’Italia ad averlo come malattia cronica? Non è il Sud ad aver fatto diventare così l’Italia, c’è un Sud con le sue gravi responsabilità che è Sud anche perché c’è questa Italia. Un Paese sfiduciato in cui gli investimenti privati sono azzerati sotto un fisco alimentato da sprechi (non solo sudisti) e corruzione. E gli investimenti pubblici spariti: non solo non si fanno nuove opere, ma non si restaurano le vecchie. Mentre secondo la stessa Banca d’Italia, ogni 100 euro di investimenti pubblici al Sud provoca un aumento immediato di 40 euro in tutto il Paese, facendo sospettare che il futuro possibile di tutti sia al Sud.
Bisogna ripartire da ciò che va. Riprendere le fila di un grande discorso nazionale utile non solo al Sud. Dire che tutto sia perduto in Italia è per fortuna sempre rischioso. Ma lo è altrettanto dire che tutto si risolva se si abbandona questo Sud irredimibile al suo destino da Svimez.

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