MigrantiDi Patrizia Caiffa

Su 500 richiedenti asilo intervistati a Roma e in Sicilia tutti hanno riferito di aver subito trattamenti crudeli inumani e degradanti. La maggior parte porta sul corpo i segni delle violenze e delle torture, come cicatrici, bruciature ed ematomi. Purtroppo, impossibili da dimostrare sono le ferite invisibili che causano disagio psichico, incubi notturni, disturbi da stress post traumatico, ansie e depressioni. Tutti i racconti sono stati raccolti, direttamente sul campo, dagli operatori dell’organizzazione umanitaria Medici per i diritti umani (Medu), comprovati da visite mediche e psicologiche. Il resoconto è confluito nel rapporto “Fuggire o morire. Rotte migratorie dai Paesi sub-sahariani verso l’Europa”, reso noto il 29 luglio. Medici e psicologi li hanno ascoltati nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) per richiedenti asilo in provincia di Ragusa e al Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Mineo, in provincia di Catania, e in alcuni insediamenti informali a Roma (edifici occupati, baraccopoli, stazioni ferroviarie). Eppure, nonostante prove su prove, c’è chi (vedi il quotidiano “Il Giornale” del 31 luglio) si ostina ad affermare, citando semplicemente la testimonianza di un interprete e spacciandola per “inchiesta”, che le storie dei richiedenti asilo “sono studiate a tavolino” e quelle raccontate davanti alla Commissione territoriale sono solo “bugie dei clandestini”.

Le torture peggiori.
Il minimo che può succedere a un migrante durante il viaggio attraverso il deserto, nei centri di detenzione libici e in mare è di essere picchiato o di vedersi negare per giorni l’acqua, il cibo, le cure mediche e ricevere minacce di morte per sé o per i propri familiari. Per le donne, ma anche per i ragazzi, lo standard è la violenza o gli oltraggi sessuali. Gli orrori peggiori, durante i quali molti perdono la vita, raccontano di torture atroci come la cosiddetta “falaka”, effettuata colpendo le piante dei piedi con fruste o oggetti simili, che provocano ferite talmente profondi da impedire alle persone di camminare. E.I. 28 anni, dalla Nigeria, ha ancora i segni di indurimento della pelle perché è stato costretto a continuare il viaggio trascinandosi sulle ginocchia. Vanno per la maggiore anche la tortura da film horror nota come sospensione “da macelleria”, appesi con i piedi in alto e la testa in basso o costretti ad assumere altre posizioni stressanti (ammanettamento, in piedi per un tempo prolungato, ecc.).

Rotte e trafficanti, una catena a maglie lente. Sono due le principali rotte migratorie, note agli addetti ai lavori e confermate dall’organizzazione: la rotta dell’Africa occidentale, che passa attraverso il deserto del Niger (indicato a volte come “la strada per l’inferno” perché tantissimi migranti lì muoiono di stenti o violenze, tanto nessuno verrà a reclamare i corpi) e la Libia; e la rotta dell’Africa orientale, dall’Eritrea e dall’Etiopia attraverso il Sudan e la Libia. Il viaggio dura in media 16 mesi, con una permanenza di circa 5 mesi in Libia e un costo medio che varia dai 1.000 ai 3.600 euro. L’ultimo tratto del viaggio è lo stesso, e prevede l’attraversamento del Mediterraneo in condizioni drammatiche, a bordo di imbarcazioni gestite dai trafficanti. Il business dell’immigrazione nel deserto del Sahara, in Libia e nel Mar Mediterraneo – denuncia il rapporto – risulta essere sempre più una rete variegata, “gestita sia da gruppi di trafficanti altamente organizzati sia da individui non professionisti che agiscono autonomamente”. La rete del traffico è una catena a maglie lente, per cui anche persone singole di pochi scrupoli (autisti, intermediari, poliziotti, civili libici e uomini d’affari) possono inserirsi e sfruttare i migranti forzati attraverso sequestri, lavoro forzato o estorsione di denaro. Oppure ci sono bande armate come gli Asma boys, che gestiscono “luoghi speciali” dove i migranti vengono quotidianamente picchiati e seviziati per denaro e che sono responsabili di attacchi violenti con bastoni e coltelli nelle strade, all’interno dei dormitori e delle case private.

“Tutti fuggono da circostanze drammatiche”. È ovvio, su decine di migliaia di persone che sfilano ogni anno davanti alle Commissioni territoriali che devono concedere loro il permesso per restare in Italia, qualcuno può emozionarsi e non rivelarsi convincente o qualcun altro può esagerare o mentire su alcuni dettagli pur di ottenere l’unica speranza di una vita più degna. Ma affermare che “non fuggono da pericoli”, non sono persone bisognose ma sono solo “in cerca di soldi e successo” – come riporta l’articolo su citato – è a dir poco azzardato, soprattutto se sostenuto da una singola testimonianza non suffragata da prove tangibili. È un tipo di giornalismo a tesi difficilmente apprezzabile. Nel rapporto Medu si ricorda che la distinzione tra rifugiati e migranti economici “è un concetto astratto” perché tutti “fuggono da drammatiche circostanze che rappresentano spesso una minaccia per la stessa vita”, sono quindi “migranti forzati”. Cade dunque – a loro avviso – la distinzione tra “migranti economici” e “rifugiati”. “Indipendentemente dal Paese di origine, molti di loro devono dunque essere senza dubbio considerati migranti forzati – sottolinea l’organizzazione -. In ogni caso è altamente probabile che ogni persona giunta nell’Italia del Sud affrontando il Mediterraneo a bordo dei barconi, abbia attraversato l’inferno del deserto del Sahara e abbia sperimentato o sia stata testimone in prima persona di torture e trattamenti inumani in Libia”.

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