trenoDi Patrizia Caiffa
Un bambino brasiliano sarà costretto ad interrompere ogni 27 minuti le attività scolastiche a causa delle vibrazioni del treno, che impiega cinque lunghi minuti per passare. Quattro ore di tempo rubate ogni giorno a 2 milioni di abitanti, insieme ai danni alla salute e all’ambiente. Siamo nella regione di Carajás, attraversata da 900 km di binari che arrivano fino al porto di São Luís, Stato del Maranhão, nel nord-est del Brasile, chiamato dalla popolazione “a cobra de ferro”, il “serpente di ferro”, che con i suoi 4 km e 330 vagoni è il più lungo treno del mondo e trasporta il ferro della Vale s.a., ritenuta la più grande e peggiore multinazionale del mondo nel settore, la stessa che vende la materia prima da trasformare in acciaio all’Ilva di Taranto. Ogni tre mesi su quei binari, mentre li attraversano, muoiono 2 persone, spesso bambini, anziani o persone disabili: il treno, che ora passa 24 volte al giorno ma presto raddoppierà, ha bisogno di uno spazio di frenata di 2 km. Ma il treno è solo un aspetto del problema, ossia l’indotto minerario che distrugge la natura e ha ripercussioni pesanti sulla vita delle persone, mentre il 98% del ferro viene esportato all’estero. La ricchezza del sottosuolo diventa quindi una maledizione per chi ci vive. C’è un legame di sofferenza e violazione dei diritti che passa da un continente all’altro, dal Brasile all’Italia, unendo in un gemellaggio la comunità di Piquiá de Baixo, municipalità di Açailandia, e il quartiere Tamburi di Taranto, il più colpito dagli effetti inquinanti delle acciaierie Ilva. Sono le cosiddette “zone di sacrificio” scelte dalle grandi corporazioni perché depresse, dove le persone sono costrette a scegliere tra due “alternative diaboliche”: la salute o il lavoro. Senza tener conto che sono entrambi due diritti essenziali dell’uomo.
Impatto devastante su 100 comunità. Nel Carajás la multinazionale Vale ha un giro d’affari di 50 milioni di dollari al giorno, a fianco di famiglie che vivono con meno di 5 dollari al giorno; 100 milioni di tonnellate di ferro l’anno estratto nelle miniere e industrie siderurgiche della zona, che ora l’impresa vuole portare a 230 milioni di tonnellate l’anno entro il 2017, con 20 milioni di dollari spesi solo per il raddoppio della ferrovia e una nuova miniera altamente impattante nella foresta. Un’accelerata ai fini di un profitto senza scrupoli, con il ferro delle miniere che si esaurirà entro 80 anni, per evitare il crollo del prezzo dell’alluminio e un’altra crisi come quella del 2008. A subire i danni peggiori di questa economia selvaggia e devastante sono un centinaio di comunità urbane, indigene, afrobrasiliane, di pescatori.
La rete “Giustizia sui binari”. Da otto anni si sono organizzate per difendere i propri diritti e lottare contro la devastazione del territorio e delle loro vite nella rete “Justiça nos trilhos” (Giustizia sui binari), composta da gruppi pastorali, diocesi, movimenti sociali, sindacati, universitari, leader delle comunità e aderendo a reti internazionali: la Repam-rete ecclesiale pan-amazzonica e la Rete ecumenica “Iglesias y minerìa”, che ha partecipato ai recenti incontri dei movimenti popolari con il Papa in Bolivia e con il Pontificio Consiglio giustizia e pace a Roma sulle comunità colpite dalle attività minerarie. “Cerchiamo di seguire da vicino le comunità per aiutarle e proteggere gli attivisti – racconta padre Dario Bossi, 43 anni di Samarate (Varese), comboniano da 8 anni in Brasile, vive a Piquiá de Baixo -. Abbiamo contato almeno 26 conflitti aperti. La gente blocca le ferrovie, ci sono interventi della polizia, aggressioni alle comunità con paramilitari, processi contro i leader, calunnie, spionaggio e infiltrazioni”. Padre Bossi teme in particolare quello che viene chiamato il “faith washing”: “Cercano la benedizione della Chiesa per farsi vedere impegnati nella responsabilità sociale d’impresa. Ma spesso è solo una iniziativa di facciata”. Una battaglia lunga e dolorosa portata avanti con azioni di lobby e advocacy presso gli organismi internazionali e a livello legale: “Abbiamo avuto, in primo grado, una sentenza favorevole che ha bloccato per illegalità tutto il processo estrattivo per 45 giorni – spiega -. Purtroppo l’impresa ha fatto appello ad una legge che risale al periodo della dittatura: in pratica l’interesse politico-economico superiore si sovrappone alla legalità”.
“Ma se l’argilla comincia a muoversi…”. Eppure le comunità continuano a resistere con coraggio e cercano alternative. “Non ci chiediamo se abbiamo successo ma se riusciamo ad essere fedeli al processo di resistenza, con pazienza e saggezza”, precisa padre Dario. Di recente 312 famiglie hanno conquistato una terra dove reinsediarsi, un bel progetto urbanistico-abitativo che ha vinto anche un premio in Colombia. Il gemellaggio con il quartiere tarantino di Tamburi – che condivide un destino simile – consiste invece in scambi culturali, visite alle rispettive comunità, iniziative comuni come libri e documentari. Ad agosto ci sarà in Brasile una carovana delle vittime. E come scrive un nonno di Piquiá al nipotino: “Mentre i poveri stentano a sopravvivere, i grandi continuano a crescere. Ma questi imprenditori hanno paura di rovinarsi l’immagine. I nostri giganti hanno i piedi d’argilla e siamo noi l’argilla di questi potenti: finché restiamo in silenzio e obbedienti loro rimangono in piedi pesando su di noi. Ma se l’argilla comincia a muoversi…”.
Per guardare il trailer di “Iglesias y Mineria”: http://youtu.be/28Gbpf6ntQs

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