finanzaGideon F. De Wit

Mentre l’Europa si interroga su un piano da 12 miliardi di euro per ridare speranza ai greci, e rimugina sul Trattato transatlantico su commercio e investimenti con gli Stati Uniti (che al netto di taluni reali rischi socio-ambientali creerebbe la più grande area di libero scambio al mondo), a Pechino e Shanghai scoppia una gigantesca bolla speculativa, per ora valutata in 2.500 miliardi di dollari. E subito ci si domanda se questa brutta sorpresa possa stoppare la crescita del Paese asiatico, o addirittura introdurvi elementi destabilizzanti, con la prospettiva di trascinare all’ingiù l’economia di mezzo pianeta.
Il crollo e i rimbalzi delle borse, da Tokyo a Wall Street, mitigati dagli interventi immediati delle autorità cinesi, potrebbero essere solo una prima avvisaglia di problemi ben più profondi: non a caso gli economisti di varie scuole hanno già messo in guardia rispetto al pericolo di una brusca frenata del motore cinese. Il gigante si fonda certamente su un solido sistema manifatturiero, sull’ampia disponibilità di materie prime, su istruzione e “cervelli” in abbondanza, su manodopera a buon mercato (spesso ai limiti della dignità dei lavoratori), su infiniti capitali investiti – nella madrepatria e all’estero – nei processi produttivi e finanziari. Ma è altrettanto vero che la Cina è attraversata da forti squilibri tra la popolazione; che l’aria è irrespirabile, per via dell’inquinamento, in buona parte delle aree urbanizzate; che lo sfruttamento dell’ambiente non ha freni; che il mercato immobiliare è cresciuto al di là di ogni ragionevole esigenza; che la Borsa è in mano a grandi speculatori pronti a cavarsela a danno di decine e decine di milioni di microazionisti… Insomma, anche nell’impero estremo-orientale, dove tuttora regna una forma rivisitata di comunismo, non tutto fila a meraviglia e per questo un attacco speculativo ai mercati cinesi va temuto per i suoi eventuali e perversi effetti a catena.
Lo sanno bene i tedeschi che proprio durante il recente incontro Ue-Cina avvenuto a Bruxelles ragionavano sul fatto di essere il principale partner comunitario di Pechino. Ma rapporti stretti con la Cina sono mantenuti – oltre che da Usa, Russia, Giappone, India – anche da Francia, Regno Unito, Italia o Spagna. Da qui, si possono trarre almeno tre immediate valutazioni sulle notizie provenienti dall’altro capo del globo.
Anzitutto si ha la conferma che le economie sono sempre più interdipendenti: vale per il mercato unico europeo e per la sua moneta, l’euro; ma la regola funziona anche su scala mondiale. E tale interdipendenza non riguarda solo, come ci si potrebbe illudere, i “livelli più alti” dell’economia (la grande finanza, l’import-export transcontinentale, il petrolio…), bensì arriva fin nei mercati rionali: perché ciascuno di noi ha in tasca un telefonino finlandese, guida un’auto coreana o tedesca, mangia hamburger in una catena americana e magari indossa una t-shirt “made in China” perché… costa meno. Così il segnale d’allarme che decolla da Shanghai dovrebbe mettere sul chi va là l’impiegato portoghese, la casalinga italiana, l’operaio brasiliano, il pescatore olandese. Per non parlare di chi vive nei Paesi in via di sviluppo o sottosviluppati: come sempre accade, infatti, in caso di crisi e di contagi sono sempre i più poveri a farne le maggiori spese.
In relazione all’accresciuta interdipendenza, emerge il secondo monito. Nell’era contemporanea, segnata da attori extralarge, sembra esserci sempre meno spazio per le “taglie piccole”. Ovvero, Stati Uniti, Cina, Russia, Sudafrica e gli altri Ciclopi sparsi per i continenti fanno affari e competono su un piano di (quasi) parità con soggetti di dimensione simile. Dunque, sul versante del Vecchio continente, è l’Unione europea (riveduta e corretta, rafforzata, rilanciata) il potenziale protagonista della scena futura. Di certo non potranno esserlo da sé Germania o Grecia, Italia oppure Estonia, Slovacchia o Irlanda.
Terzo punto: quanto accade nelle Borse cinesi piuttosto che nei mercati statunitensi, nelle piantagioni sudamericane o nelle piazze di Atene richiama una volta di più il dovere di interrogarsi sui modelli di sviluppo che abbiamo intrapreso, sui valori che innervano la convivenza tra i popoli al di là delle frontiere, sulla tenuta delle democrazie moderne anche in ragione di un equilibrato rapporto tra politica, economia giustizia e diritti fondamentali. L’enciclica “Laudato si’” di Papa Francesco è una buona guida in materia.

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