ElizabethDi SIlvia Guzzetti
Un lungo impegno in prima linea per le famiglie cattoliche di Inghilterra e Galles. Elizabeth Davies, madre di quattro figli ormai grandi, nonna da poche ore, è responsabile per il settore famiglia per la Conferenza episcopale. Ha guidato il progetto “La mia famiglia, la mia chiesa”, lanciato nel 2004, con il quale i vescovi hanno coinvolto 15mila famiglie in una serie di conversazioni diocesane riunendo sacerdoti, madri e padri per riflettere su come rimettere il nucleo familiare al centro della vita della Chiesa.
Il recente Instrumentum laboris parla della paura di fallire dei giovani, quando considerano la possibilità di sposarsi, e del grosso impegno economico che è il matrimonio. Pensa che questa sia un’analisi adeguata delle ragioni per le quali i cattolici di Inghilterra e Galles si sposano molto di meno che in passato?
“L’Instrumentum laboris ha proprio colpito nel segno. È vero che molti giovani si scoraggiano all’idea di sposarsi perché hanno visto così tanti matrimoni fallire, tra i loro parenti e amici, per non parlare dei loro stessi genitori. Ed è verissimo che alcuni matrimoni sono davvero costosi. A questa mancanza di fiducia la Chiesa deve rispondere con servizi adeguati che aiutino le coppie a prendere questa decisione così importante. Nella diocesi di Westminster portiamo coppie sposate nelle scuole a parlare della loro esperienza così che i giovani non idealizzino il matrimonio immaginandolo come una realtà romantica. Spieghiamo che è normale avere discussioni e anche litigare e cerchiamo di attrezzare le coppie per sopravvivere ai primi anni, garantendo fra l’altro un servizio di counselling, per quando attraversano difficoltà e hanno bisogno di quell’aiuto in più che è assolutamente normale ricevere”.
Il documento parla anche della “importanza di sviluppare una adeguata cura pastorale verso le famiglie composte da unioni coniugali con disparità di culto, il cui numero sta crescendo non solo nei territori di missione, ma anche nei Paesi di lunga tradizione cristiana.
“Ormai il 15% dei nostri matrimoni, in Inghilterra e Galles, sono interreligiosi, tra un cattolico o una cattolica e un seguace dell’islam, dell’induismo, del buddismo o di altre religioni, e questo pone problemi per l’educazione dei figli, i riti di passaggio e il momento della morte. Le nostre coppie interreligiose fanno un lavoro enorme perché cercano di capire che cosa vuol dire avere fede in Dio. Garantire loro una pastorale adeguata è un lavoro importante e delicato. Non penso che il prossimo Sinodo di ottobre avrà tempo di discutere di questo ma vorrei che il tema fosse sulla lista delle cose da fare e che venissero fornite delle linee guida, dal Pontificio Consiglio sul dialogo interreligioso alle varie conferenze episcopali che potrebbero poi definire i particolari della pastorale di queste situazioni considerato anche che i contesti culturali di questi matrimoni sono diversi in varie parti del mondo”.
Qual è stato il percorso delle famiglie cattoliche inglesi a partire dal questionario diffuso alla vigilia del Sinodo dello scorso ottobre?
“Quel primo questionario aveva davvero catturato l’immaginazione della nostra gente che ha preso a cuore l’invito di Papa Francesco a dire la propria opinione. Abbiamo ricevuto ben 16mila risposte da tutte e 22 le diocesi di Inghilterra e Galles. Il consiglio del Sinodo ha deciso, però, di non pubblicarle e, quindi, quando i nostri vescovi hanno diffuso un secondo questionario la risposta è stata più fredda. Capisco le ragioni della decisione di non rendere pubblico il risultato di quel questionario, ma penso che, a livello locale, la delusione è stata grande. Spero che, al prossimo Sinodo di ottobre, il Papa dirà ai vescovi di tornare a casa e pubblicare quelle risposte così che possano essere utilizzate come elemento di confronto sulla realtà familiare. Spero anche che un numero maggiore di laici, soprattutto con esperienza pastorale tra le famiglie, vengano invitati al Sinodo”.

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