Di Nicola Salvagnin

Novemila trecento miliardi di euro di debito pubblico: questa la zavorra che 19 Paesi dell’eurozona si portano appresso a fine 2014, secondo i dati Eurostat. Erano 6mila (per 17 Paesi) nel 2007. Anche noi, come altre nazioni, abbiamo affrontato la crisi economica sottoscrivendo nuovi debiti. Lo hanno fatto in maniera ancora più massiccia gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il Giappone, soprattutto con l’intento di rivitalizzare le due economie: con risultati ancora da valutare, ma finora buoni.
L’eurozona invece ha soprattutto tamponato falle, in primis nel proprio welfare e poi per affrontare l’emergenza disoccupazione. La ripresa economica è stata timidissima, ed è cosa di questi mesi. I numeri rivelano che il debito più alto in termini assoluti lo hanno i tedeschi (2.170 miliardi) ma a tassi ridicoli e con alle spalle un’economia gigantesca e sana; poi arriviamo noi italiani (2.135 miliardi, troppi rispetto al nostro Pil) e – udite udite – i francesi: 2.040 miliardi. I cugini transalpini sono quelli che, pur di evitare decisioni e riforme, hanno pestato forte l’acceleratore del debito pubblico. Segue la Spagna (più di mille miliardi) fino ai 315 della Grecia: in sé non tantissimi, salvo il fatto che Atene ha un prodotto interno lordo completamente insufficiente per farvi fronte.
Ecco, la Grecia. È la piaga purulenta, ma il corpo malato sta lì vicino, è l’Italia e si soccorre Atene per non vedere aggredita Roma: l’euro non si salverebbe. Ma tutta l’eurozona sta in una bolla di sapone, in una finzione che regge finché il sistema dimostrerà urbi et orbi che ce la fa a sostenere quasi 10mila miliardi di debiti.
Dice l’economista Nicola Sartor, già sottosegretario alle Finanze del governo Prodi e attuale rettore dell’ateneo veronese: “Il debito pubblico americano è molto più elevato, tutti gli indicatori europei sono migliori rispetto a quelli Usa. Salvo che per un fatto, decisivo: lì c’è un unico Paese, un unico governo, una potenza che si autogestisce. Qui, dietro ai numeri economici c’è l’anarchia politica. Una differenza decisiva”.
Un altro tributarista prestato alla politica, Giulio Tremonti, fece una lunga battaglia nelle sedi europee per far nascere gli eurobond: un debito pubblico unico, sotto una regia politica ed economica unica. Ma i tedeschi (sopra tutti) non vollero addossarsi i debiti delle cicale latine: l’avessero fatto allora, avrebbero inghiottito una ranocchia, e non il rospone di oggi.
Ma se Berlino non si distinse per lungimiranza, è pur vero che è in prima fila da anni a stimolare tutti i Paesi euro-fratelli a gestire le finanze pubbliche con responsabilità, perché l’esplosione di quella enorme bolla di sapone di cui sopra non rovinerà (più di tanto) qualche fondo d’investimento americano o qualche patrimonio statale cinese o arabo, che detengono meno di un terzo del debito: lo tsunami investirà anzitutto e soprattutto noi europei, noi italiani. A rischio sono i risparmi di tre generazioni (in Grecia si stanno sciogliendo come neve al sole), un tessuto produttivo ancora potente a livello mondiale, un sistema di vita invidiato dal resto del globo, un intreccio di protezioni sociali creato dopo decenni di lotte e conquiste.
Nei titoli di Stato sono investiti i nostri soldi, quelli delle banche e delle assicurazioni, di molte aziende. E se gli Stati dovessero tamponare le falle o tentare di chiuderle, lo dovranno fare con un forte inasprimento fiscale se non addirittura con delle patrimoniali (vedi Cipro tre anni fa): quindi se non è zuppa… E gli irresponsabili che spingono per uscire dall’euro – pensando così di uscire dal debito – fingono di non vedere come pure lo sconsiderato governo greco alla fine stia facendo di tutto per non affrontare una simile opzione: perché una moneta ha un valore se c’è qualcosa dietro ad essa. Sennò è solo carta che rischia di bruciarci.

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