OmeroMaria Chiara Biagioni

Il jihadismo è entrato senza bussare nella vita di tante famiglie europee. Ed è entrato dalla porta più preziosa che è quella dei nostri figli. Le tracce oscure e perverse della sua presenza tra noi sono il lento cambiamento nel corpo e nell’anima del ragazzo, la sua rottura radicale con il mondo di appartenenza, la decisione di partire, e infine la morte o il tragico destino di non poter tornare indietro. I protagonisti di queste storie sono ragazzi ma soprattutto ragazze che hanno appena dai 14 ai 20 anni. A raccontarle è il sociologo musulmanoOmero Marongiu-Perria. Lavora al Cpdsi, un centro di prevenzione contro le derive settarie legate all’Islam. Un’iniziativa nata in Francia lo scorso anno in seguito alla pubblicazione di un libro scritto da Dounia Bouzar sul fenomeno. Decine di famiglie hanno cominciato a chiamarla in cerca di un aiuto. Le storie si intrecciano, sono tutte drammatiche, percorrono il filo fragilissimo tra la vita e la morte. C’è il ragazzo partito per la Siria che aveva chiesto in video al presidente Hollande di convertirsi all’Islam e c’è la giovane mamma alla quale il marito ha preso il bimbo di 8 mesi per portarlo in Siria.

Sono 10mila gli stranieri attualmente arruolati in Siria e Iraq nei diversi gruppi di Al Qaeda e Isis.L’adescamento in terra europea avviene seguendo due strade: la prima si avvicina alle tecniche utilizzate dalle sette e utilizza la manipolazione mentale. È, dunque, una strategia di aggancio che fa presa su tutti, musulmani e non. L’altra via percorre, invece, i sotterranei del mondo musulmano e dei neo-convertiti all’Islam diffondendo una visione radicale dell’Islam vicino al salafismo – wahabismo. Lo scopo primario è allontanare il giovane dal suo stesso ambiente musulmano. Quello finale è condurlo nei campi di battaglia. Il cambiamento spesso è visibile: crescita della barba e l’uso della “gellaba” (tunica) per i ragazzi. Velo integrale per le ragazze. Si considerano e si chiamano tra loro “fratelli” e “sorelle”. Quattro gli elementi che indicano un pericolo di radicalizzazione in atto: la distanza che prende il giovane dal suo ambito sociale (non frequenta più gli amici che ritiene improvvisamente gente negativa); la distanza dalle sue attività sociali (sport); la distanza con la scuola e, infine, l’ultima tappa – quella definitiva – è il rifiuto dall’autorità della famiglia. “È l’ultimo elemento e quando il giovane lo supera – racconta Marongiu – significa che ha preso la decisione di uscire di casa e spesso di partire per la Siria”.

Il viaggio passa per Parigi-Marsiglia e più spesso per Parigi-Turchia.
Ci si avvale di un circuito sofisticato dove i ragazzi sono presi in carico da una vera e propria mafia che contrariamente a quanto si può pensare, non ha nulla di antico ed esotico. Ha soldi, può contare d’infrastrutture in Europa, ha accesso alle reti sociali. La maggior parte del “popolo che parte” sono ragazze. Servono per il “riposo del guerriero”, servono come “schiave sessuali”: lo scopo è farle partire e sposare con un giovane combattente. Una volta arrivate in Siria o Iraq nel giro di alcuni mesi rimangono incinte. L’attesa di un bambino le fa spesso prendere consapevolezza della loro situazione. “È come se il fatto di aspettare un figlio – spiega il sociologo -, permetta loro di aprire gli occhi e guardare la realtà”. Le famiglie che mantengono un contatto spesso via web, seguono il loro cambiamento, accolgono impotenti la loro domanda di tornare a casa ma a quel punto rimpatriare è impossibile. Per i ragazzi è più facile ma in Francia chi torna dai campi di battaglia dell’Isis viene messo immediatamente in prigione. In Danimarca e Svezia invece no.

Sono 400 le famiglie seguite del Centro francese di prevenzione. Un 30-40% dei casi denotano la presenza di elementi di radicalizzazione. Sono dunque una cinquantina i ragazzi inseriti nei percorsi di riabilitazione. Il processo terapeutico è lo stesso di quello seguito nei casi della manipolazione delle sette. Il lavoro psicologico punta infatti a far riflettere il ragazzo sul suo percorso di vita. “E se la manipolazione di cui è vittima ha fatto presa sulla sua dimensione emotiva – spiega Marongiu – anche gli operatori lavorano sui sentimenti. Un lavoro che si può fare soltanto con l’aiuto della famiglia e il sostegno di giovani coetanei che hanno vissuto la stessa esperienza”. È ancora presto per dire se il percorso riabilitativo ha avuto successo. Ma una cosa è certa: “Le famiglie devono sapere che i loro ragazzi sono cambiati e non saranno più come prima”. Sono però pronti a iniziare un nuovo percorso di vita. E quando se la sentiranno, potranno a quel punto aiutare i loro coetanei a non cadere nella stessa trappola. Perché l’Isis non si ferma: ha sempre bisogno di nuove leve da arruolare. (Per saperne di più: “Désamorcer l’Islam Radical. Ces dérives sectaires qui défigurent l’islam” di Dounia Bouzar e www.cpdsi.fr).

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