Don EnricoDIOCESI – Abbiamo intervistato Don Enrico Brancozzi, Docente di Teologia Dogmatica
presso l’ITM e l’ISSR “SS. Alessandro e Filippo” e autore del libro “Un popolo nella storia. Introduzione alle questioni ecclesiologiche del concilio Vaticano II”

Don Enrico cosa sognava di fare da bambino e come è nata la sua vocazione?
Il muratore, senza dubbio! Ho conosciuto molto presto il seminario di Fermo dove si facevano degli incontri per ragazzi. Durante il liceo, si sono accese in me le domande importanti della vita ed ho trovato nei formatori del seminario e negli stessi seminaristi degli importanti punti di riferimento.

Come è stato il suo percorso di fede? Ci può raccontare qualche aneddoto?
La mia famiglia è stata il luogo dove è cresciuta e maturata la mia fede. Poi la vita della parrocchia, in particolare l’Azione Cattolica, i campi estivi, la catechesi, etc. Sono sempre stato legato alla vita di una comunità concreta e alle sue dinamiche. Ad un certo punto ho iniziato a frequentare il seminario, che all’epoca svolgeva un’attività aggregativa e vocazionale di grande spessore. In ogni evento diocesano i seminaristi proponevano sempre qualcosa: una meditazione, una celebrazione, uno spettacolo, un torneo di calcetto. Erano una presenza gioiosa che si notava…. Non era raro, dopo le lezioni del liceo, chiedere di fermarsi a mangiare in seminario. Io chiamavo il giorno prima per avvisare e il rettore mi rispondeva sempre: «Non devi avvisare, vieni quando vuoi! Un piatto di pasta c’è sempre!» Questa libertà mi colpiva, un’accoglienza sempre naturale, come fossi di casa, come fossi uno di loro. E poi il calcio, sempre lì…

Cioè?
I seminaristi giocavano a calcio un giorno a settimana, il “mercoledì di coppa” lo chiamavano, ma spesso non erano abbastanza e invitavano altri ragazzi esterni a giocare con loro per arrivare ad undici. A volte si rimaneva a messa. Era difficile non farsi due domande. Molti ragazzi che sono passati attraverso questa “compagnia della fede”, direbbe Ruggieri, si sono poi sposati e sono rimasti legatissimi al seminario.

Lei è autore del libro “Un popolo nella storia”. Già dal titolo sembra voler riassumere l’ecclesiologia del Vaticano II. Quanto sono state importanti queste due categorie durante l’assise conciliare? Che profondo significato esse hanno avuto? E a distanza di 50 anni come sono state recepite nella Chiesa?
Si tratta di una semplice introduzione ad alcuni temi del concilio, soprattutto un commento a Lumen gentium (il popolo) e a Gaudium et spes (nella storia). Ecco spiegato il titolo. Non c’è un documento più importante degli altri al concilio, o almeno sarebbe opinabile stabilirlo. Non ci sarebbe stata questa visione di Chiesa senza Sacrosanctum concilium e la riforma liturgica. Ma non ci sarebbe stata la riforma liturgica senza Dei verbum e una nuova visione della Rivelazione. E via dicendo. Tuttavia è innegabile che LG e GS siano tra i documenti centrali perché sono quelli che hanno modificato il modo con cui la Chiesa ha percepito se stessa e il mondo circostante.

La recezione del concilio è stata per molti aspetti buona, per altri più complessa. Ad esempio, la Scrittura è tornata ad essere al centro della vita di fede delle nostre comunità, questo mi sembra innegabile. La celebrazione liturgica ha guadagnato nella partecipazione di tutti. Nessuno oggi pensa più di “assistere” passivamente all’eucaristia, neppure i più anziani. Anzi, spesso gli anziani sono i primi ad aver vissuto questo cambiamento e a custodirlo come un valore. Penso a quanto sia cresciuto il rapporto tra la Chiesa cattolica e le altri confessioni cristiane. Oppure al diverso atteggiamento nei confronti delle altre religioni, primi fra tutti gli ebrei.

Altri aspetti necessitano di un’ulteriore crescita. Ad esempio, il ruolo dei laici è uscito dalla marginalizzazione e alcuni di essi hanno ruoli di responsabilità nella Chiesa. Tuttavia, occorre chiedersi con onestà se si tratti del reale riconoscimento di un carisma oppure di un ruolo di “supplenza” da esercitare finché non torneranno tempi migliori. Penso alla dimensione sinodale delle nostre comunità, ossia la capacità di valorizzare pienamente gli organismi di partecipazione a tutti i livelli. Questo mi sembra un “sentiero interrotto”. Spesso sono chiamati a ratificare decisioni già prese da altri. Credo però che sia una fatica fisiologica legata ad una transizione epocale. Si tratta di dare un volto nuovo ad una struttura che ha almeno quattro o cinque secoli.

Abbiamo celebrato poco tempo fa la beatificazione di Paolo VI. Per alcuni il papa che ha fatto fare un passo indietro al Concilio, per altri il miglior papa del Novecento. Lei come definisce la sua figura e il suo ruolo nel concilio e nell’immediato postconcilio? Oggi nella Chiesa è giunta a maturazione la linea del dialogo sulla quale lui ha posto insistentemente l’accento?
Dovessi scegliere, sarei certamente tra i secondi. Si potrebbe dire semmai che ha fatto fare un passo avanti al concilio! Il discorso su Montini è estremamente complesso e necessiterebbe di un approfondimento. Tuttavia, per non sottrarmi alla sua domanda, Paolo VI è una figura gigantesca innanzitutto perché è colui che ha portato ad approvazione la totalità dei documenti conciliari in modo praticamente unanime. Dunque, nessun altro papa è stato artefice del concilio quanto lui. Inoltre, nel postconcilio ha dato seguito – anche qui senza paragone con altri – all’attuazione delle intuizioni che il Vaticano II aveva lasciato ad uno stato teorico. Per capire la grandezza di Montini occorre guardare alla storia e credo che sarà la storia a rendergli ragione. Nell’opinione pubblica è una figura rimasta schiacciata tra lo stile immediato e per certi versi rivoluzionario di Giovanni XXIII e il grande carisma di Giovanni Paolo II. Se si cerca in Paolo VI il leader che infiamma le folle, si resta delusi. Ma un papa non dovrebbe essere giudicato secondo parametri “televisivi” o mediatici.

Il dialogo è forse la categoria riassuntiva del suo pontificato. Basterebbe fermarsi su questo punto per coglierne la grandezza. Sì, credo che la Chiesa abbia cercato (anche se con esiti alterni) di sviluppare questa linea così centrale per Montini. Per noi oggi è scontato pensare il rapporto con il mondo in termini di dialogo. Ma cinquant’anni fa non era così, si trattava di una sfida enorme e appassionante. In molti punti l’Evangelii gaudium di papa Francesco riprende l’Evangelii nuntiandi di Paolo VI. Già solo questo fatto mi sembra emblematico di un grande debito culturale ed ecclesiale.

Alla luce del Concilio e con uno sguardo a quanto detto dal papa all’ultima assemblea generale dei vescovi italiani, come ripensare il ministero e le varie strutture ecclesiali (in primis diocesi e parrocchie)?
Non saprei. Mi sembrerebbe avventato anche solo fare qualche ipotesi. Anche perché credo che ci siano dei passi da fare che solo le singole Chiese locali, cioè le diocesi, possono mettere in atto. Altri passaggi saranno invece più generali e strutturali. Però una cosa mi sembra evidente. Il papa ci chiede costantemente di essere una Chiesa “in uscita”, una comunità che evangelizza, che diffonde la buona notizia del Vangelo. Se questa è la priorità, ogni riforma deve avere come scopo facilitare l’evangelizzazione, renderla più efficace, concentrare le risorse ed evitare la dispersione. In una parola, direi promuovere la comunione, cioè fare in modo che le nostre comunità si sentano investite nella loro totalità di questo compito.

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