ferrariDi Tamara Ciarrocchi
“Penso che la ricerca scientifica sia esattamente preghiera all’Altissimo. É come un processo salvifico: la trasformazione dell’orrore e dello sgomento di fronte al mistero del male in energia vitale, in energia di speranza”. A parlare è Mauro Ferrari, lo scienziato italiano, considerato tra i massimi esperti della bio-ingegneria. È’ presidente e amministratore delegato del Methodist Research Institute di Huston, in Texas, uno dei primi dieci ospedali degli States: 1200 dipendenti, milioni di dollari di investimenti in campo medico e una équipe di ricercatori da tutto il mondo, molti anche dall’Italia. Con il suo staff di specialisti, e grazie ad un nuovo approccio interdisciplinare, sta portando avanti da anni un progetto di lotta contro i tumori attraverso la sperimentazione sulle nanotecnolgie applicate alla medicina con l’obiettivo di individuare terapie capaci di trasportare i farmaci direttamente a contatto con le parti malate, evitando di intaccare le cellule sane.
Dall’Italia in America, qual è stato il momento che ha segnato la sua vita e la sua carriera?
“Da matematico e ingegnere sono partito dall’Italia per lavorare negli Usa nell’ambito delle scienze fisiche. Poi è accaduto un fatto personale. Ero sposato e avevo una vita felice con tre bambini. Mia moglie muore improvvisamente a 32 anni per un tumore. Un duro colpo. Una tragedia che mi ha aperto gli occhi, perché ero convinto che in America si potevano applicare tecnologie avanzate per risolvere alcuni problemi nel campo oncologico. E in quel momento di dolore è ripartita la mia coscienza religiosa. Così la mia prospettiva di vita è cambiata in tanti modi. Facevo fatica a staccarmi dalla corsia in cui era ricoverata Maria Luisa, e dopo la sua scomparsa ho continuato comunque ad andarci, per un pò, questa volta da volontario: portavo ai pazienti da bere e coperte calde alle persone che facevano la chemioterapia. Decisi allora di ricominciare da zero, questa volta per studiare medicina, a 43 anni, la terza laurea, mentre ero già professore ordinario. Poi ho avuto la grande fortuna di incontrare Paola. Ci sposiamo. Nascono due gemelle. Da lì a pochi anni mi sono ritrovato a trasformare il dolore in forza di bene. Ora preferisco guardare al futuro, perché ci sono ancora tanti progetti da portare avanti”.
Cosa hanno in comune per lei, la fede e la ricerca?
“Il rapporto tra fede e religione spesso viene discusso in tanti modi. Ci sono scienziati che affermano che solo il lavoro scientifico può portare alla conoscenza. E questo, naturalmente, è un punto di vista, a mio parere, estremamente limitato. Nella mia quotidiana attività, tutto muove e tutto parte dalla fede. Ho capito che la ricerca è in tanti modi simile al pregare. È importante rendersi conto qual è il nostro posto davanti alla magnificenza divina. Chi non fa scienza partendo da questa prospettiva, secondo me, è tracotante perché, anche se non crede in Dio, affronta il problema scientifico pensando di fare uno scontro alla pari. Parto dal presupposto che bisognerebbe invece sentirsi piccolissimi di fronte a questa immensità”.
Perché gli scienziati sono spesso restii a parlare di fede?
“Ogni volta che mi sono trovato a parlare di fede in ambito pubblico è capitato che a fine relazione qualche collega mi dicesse, quasi in segreto, ‘sono un credente anche io’. Siamo arrivati a questo paradosso. Molti scienziati fondamentalmente nascondono la loro fede perché hanno paura di essere messi all’indice, di essere sbeffeggiati dalla cosiddetta ‘ortodossia scientifica’ che dice che puoi fidarti solo di te”.
Pensa di aver trovato “le impronte del Creatore” in quello che fa?
“Nell’universo fisico del mondo studiato dalle varie discipline scientifiche trovo ovunque firme segrete divine, messaggi d’amore, bigliettini celati nei posti più impensati e il più delle volte nascosti nei posti più soleggiati, in completa evidenza. Bigliettini che sono scoperte e che io ritengo essere il messaggio di affetto di Dio”.
Cosa ne pensa degli studi attuali sulla presunta origine genetica della fede?
“Un paradosso. C’è chi sta iniziando studi in tal senso per individuare i geni che hanno a che fare con una serie di emozioni umane, compresa quella della fede. Qualcuno pensa che se si individuasse questo gene sarebbe la dimostrazione che Dio non esiste. Anche se tutto ciò avesse un fondamento scientifico dimostrato, occorrerebbe comunque chiedersi: ma quei geni chi li ha messi insieme?”.

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