Don Pino PuglisiDi Mons. Vincenzo Bertolone da Zenit

«Padre Puglisi è morto per aver avuto fame e sete di giustizia divina e umana. È  morto per questa sete di cose giuste. Niente lo ha fermato: né morte, né vita, né presente, né futuro». Accommiatandosi dal clero e dai fedeli di quella che per lunghi anni era stata la sua diocesi, nel 1996 il cardinale Salvatore Pappalardo ricordava la figura del parroco di Brancaccio descrivendone con parole di lucido effetto l’impegno presbiterale e la tensione evangelica.

Una riflessione che non ha perso attualità ed anzi torna al centro del dibattito oggi che appaiono lontani i tempi di quelle parole e, ancor più, del sacrificio del prete palermitano, proclamato beato il 25 maggio 2013 perché riconosciuto martire per la sua fede ed il suo operato, odiati dalla  mafia e dai mafiosi  e perciò da essi combattuti con la violenza e la morte. Ma niente e nessuno, come ricordava sempre il cardinale Pappalardo, «ha potuto impedire il suo grande amore per Dio che diventava, come dev’essere per ogni cristiano, interesse, solidarietà, servizio per quanti hanno bisogno di essere aiutati nel corpo e nello spirito».

Inevitabilmente il Beato continua ad essere pietra di scandalo in una Chiesa che voleva e vuole recidere ogni legame con l’organizzazione mafiosa, ma che faticava e fatica, fisiologicamente, a ritrovare un’identità certa nei suoi ministri, evangelizzatori in una società postmoderna. «Ci sono preti che si comportano come altoparlanti di Cristo non solo con le parole, ma anche coi fatti. Altri invece hanno scelto la vita quieta, il tran tran: nessun nemico. Eppure, Gesù crea una rottura tale che lo chiamano segno di contraddizione», ha sottolineato qualche tempo fa Papa Francesco con la freschezza e la sincerità che gli sono proprie.

«La Parola di Dio entra nel nostro cuore, cambia il nostro cuore. Ma il cuore è chiuso a quella Parola»! E ci porta a pensare a tante sconfitte della Chiesa, a tante sconfitte del popolo di Dio semplicemente perché non sente il Signore, non cerca il Signore, non si lascia cercare dal Signore», ha aggiunto il Pontefice, richiamando l’intero clero ad una riflessione intima e personale, che diventa generale e collettiva nel momento in cui ci si interroga su chi sia, e su cosa e chi debba essere al giorno d’oggi, il prete.

Le tante visuali dalle quali viene percepito il profilo del presbitero, offuscate sia dalle ombre legate al calo numerico in Occidente, sia dalla difficoltà di sintonizzarsi correttamente con la cultura contemporanea, complessa, eterogenea e frammentaria, rendono il quesito di difficile soluzione. Ma una risposta viene dalla vita di Gesù, una vita decentrata-verso-fuori, dedicata totalmente agli altri, ad un progetto salvifico basato sull’esaltazione dei più deboli, con un linguaggio diretto, vivo, incisivo: «Sia il vostro parlare sì sì, no no. Il di più viene dal maligno»(Mt 5,37).

Don Peppino Diana, ucciso dalla camorra il 19 marzo di ventun anni fa, mentre si accingeva a celebrare la messa, spronava i suoi confratelli «a essere segno di contraddizione, coscienti che come chiesa dobbiamo educare con la Parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che è la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà».

Neppure due anni prima, nel quartiere palermitano di Brancaccio, don Pino Puglisi impostava la questione così: «Come parlare di Cristo? Dobbiamo cercare di presentare da innamorati la figura di Cristo, per sperare che ci stiano a sentire. Ciascuno di noi dovrà fare da mediatore, dovremmo fare innamorare gli altri di Cristo, ma logicamente occorre che già noi siamo carichi di questo innamoramento», anche se conduce al martirio.

Chiaro l’invito: innamorarsi di una persona, per innamorare; ripartire dalla povertà per essere segno di contraddizione cristiana; coltivare la ricerca dell’essenziale, una fede solida ed appassionata, l’amore per la Chiesa espresso in un lavoro instancabile, il desiderio di recuperare una spiritualità autenticamente presbiterale. Elementi che costituiscono il cuore d’una missione che non può che essere, per dirla con Hans Urs von Balthasar, «missione nella battaglia, in quanto affermazione della causa di Cristo mettendo in gioco la propria esistenza, dove la passione è soltanto la forma estrema dell’azione».

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