immigratiSarà che la lingua inglese c’entra qualcosa?
Eppure è proprio l’idioma di Shakespeare a congiungere Londra, Washington e Canberra, oltre a una gestione dei fenomeni migratori che registra tradizionalmente posizioni nette e ferme (al limite dell’intransigenza). Sia chiaro: le migrazioni, fenomeno che attraversa la storia dell’umanità, hanno sempre creato problemi. Dall’accoglienza all’integrazione, dalla sicurezza alle pressioni – economiche, occupazionali, sociali, culturali, religiose… – esercitate nel Paese che riceve. Negarlo sarebbe inutile, oltre che sciocco. Eppure, la stessa storia insegna che ci sono nazioni che hanno fatto dei migranti un loro punto di forza, una leva per lo sviluppo: gli Stati Uniti o l’Australia ne sono due tra gli esempi più lampanti.
Oggi come oggi, però, gli Usa, per ragioni molteplici e per lo più comprensibili, stanno sbarrando con decisione le porte a nuovi arrivi. In una società ormai multiculturale, ulteriori iniezioni di “latinos” o di altri stranieri è proprio malvista. Ne sanno qualcosa i messicani, alla cui frontiera settentrionale si son trovati un muro, con tanto di filo spinato, voluto dalla democrazia a stelle e strisce: un “keep out” (non entrare, ndr) tutt’altro che amichevole.
A suo modo, anche l’Australia s’è stufata di fare da terra promessa dei giovani stranieri in cerca di lavoro. È di questi giorni la notizia secondo cui il Paese dei canguri stringerà il cordone della borsa, obbligando gli under30 che arrivano copiosi con un permesso studio/lavoro a cercar fortuna, a pagare fior di tasse, dalle quali finora erano risparmiati. Un modo come un altro per scoraggiare… Solo gli italiani sono oltre 15mila, diversi dei quali, con tanto di laurea e master, finiscono a raccogliere verdure nei campi o a fare i camerieri, sottopagati e qualche volta trattati – come si usa dire – come cani in chiesa (del resto capita in Italia con profughi e rom…). Anche in tal caso trapela un “alla larga” da parte di chi sta bene a casa propria e non vuole scocciature provenienti dall’estero.
Terzo caso: l’Unione europea cerca a fatica un mezzo accordo al suo interno per fornire solidarietà ai Paesi di prima accoglienza e ripartire il carico dei profughi che arrivano sui barconi a Lampedusa o sulle coste pugliesi; e subito dal governo inglese parte un “no, thanks” che contraddice i principi su cui si basa l’integrazione comunitaria.
Dunque è la lingua inglese che genera allergia ai migranti? Ebbene, pare di no. Sulla minuscola isola di Malta, dove l’inglese è di casa, i disperati del mare – pur fra qualche mugugno – sono accolti e presenti. Certo in numero limitato, anche in ragione della modesta popolazione locale, eppure ci sono.
Grazie a La Valletta, lo stile british è salvo.

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