violenzaDi Umberto Siro

In fuga dalla persecuzione, sequestrati e vittime dei trafficanti di vite umane: sono i Rohingya, l’etnia di origine musulmana che vive per la maggior parte nella regione occidentale del Myanmar.

Un popolo di perseguitati.
Nei giorni scorsi, più di mille musulmani di etnia Rohingya, provenienti dalla Birmania (l’attuale Myanmar) e dal Bangladesh, in fuga dalla persecuzione e dalla povertà, sono stati soccorsi al largo delle coste indonesiane. Altri mille sono arrivati sulle coste della Malesia. I Rohingya (un milione e 300mila complessivamente) vivono per la maggior parte nel Rakhine, regione occidentale del Myanmar: non hanno nazionalità e cittadinanza, non sono riconosciuti né dal Myanmar né dal Bangladesh, molti di loro non hanno accesso a cura e istruzione. Un “popolo di perseguitati”, lo definisce l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). Dal giugno 2012 la regione di Rakhine è stata teatro di scontri violentissimi fra buddisti e Rohingya, che hanno causato almeno 200 morti e 250mila sfollati. Secondo stime delle Nazioni Unite in Myanmar – nazione a maggioranza buddista, con 50 milioni di abitanti – vi sono tuttora 1,3 milioni di appartenenti alla minoranza musulmana, che il governo considera immigrati irregolari.

Le fosse comuni. I Rohingya cercano, dunque, una via di salvezza, che li fa diventare migranti in altri Paesi. Esiste anche una recente, macabra e terribile scoperta: in un campo abbandonato nei pressi della giungla, distante qualche centinaio di metri dal confine fra Thailandia e Malaysia, è stata trovata una fossa comune, che conteneva i cadaveri di ventisei persone – tutti uomini tranne uno – della minoranza musulmana, in fuga dal Myanmar. L’area in cui è stata scoperta la fossa comune, è largamente usata dai Rohingya per raggiungere i Paesi vicini; i migranti trovati morti sono stati vittime dei trafficanti, che li hanno lasciati in preda alle malattie e alla fame, in attesa che le loro famiglie pagassero per liberarli.

La responsabilità delle autorità.
La polizia thailandese ha arrestato quattro persone, tra cui funzionari governativi locali e membri della pubblica amministrazione, che sfruttavano la loro posizione per lucrare sui migranti. Fra questi, un membro del consiglio provinciale di Songkhla, dov’è stato rinvenuto il campo e due funzionari di un villaggio. Non a caso – come sottolinea Asia News – da tempo attivisti e gruppi pro-diritti umani denunciano un clima di omertà, se non addirittura di connivenza nella tratta di vite umane, da parte di funzionari governativi, amministratori ed esponenti delle forze dell’ordine. Il generale Somyos Pumpanmuang, su mandato del primo ministro Prayut Chan-o-cha, ha visitato la fossa comune e il centro in cui erano detenuti i profughi, annunciando indagini approfondite. “Abbiamo emanato altri mandati di cattura – ha aggiunto – e le autorità impegnate nel caso hanno già raccolto altre prove”. Si contano 140mila sfollati rinchiusi nei centri profughi che, secondo quanto stabilito dal governo birmano, devono accettare la classificazione di bengali – e ottenere la cittadinanza – oppure rimanere “a vita” nei campi. “La tratta di persone in questa area della Tailandia è fuori controllo da molto tempo, gli alti funzionari thailandesi lo hanno ammesso”, ha detto Brad Adams, direttore di Human Rights Watch per l’Asia, che ha aggiunto: “La scoperta di una fossa comune in un campo di smistamento gestito da trafficanti di esseri umani purtroppo non è una grande sorpresa. Il lungo coinvolgimento di funzionari thailandesi nel traffico di esseri umani significa che per scoprire la verità e punire i responsabili, è necessaria un’indagine indipendente con il coinvolgimento delle Nazioni Unite”.

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