ufficioDi Rino Farda

Per capire cosa succedeva nel mondo, una volta bastava aspettare l’annuncio dei vincitori del premio Pulitzer. Adesso, invece, il premio è diventato autoreferenziale ed è come una finestra “egotica” sulle tendenze della narrazione giornalistica. Un premio che assomiglia sempre di più ai “selfie” che divi e attricette pubblicano su Twitter o Facebook. L’edizione del Pulitzer di quest’anno, purtroppo, non fa eccezione. Morti, scandali e sangue fanno da sfondo al narcisismo dei giornalisti che hanno vinto i premi del 2015 (annunciati il 21 aprile). Lo shock e l’emozione forte hanno preso il sopravvento nella spirale involutiva di un giornalismo che sembra puntare ormai solo alla pancia del pubblico e ha dimenticato la testa.
Il premio fu istituito dal giornalista ungherese-americano e magnate della stampa statunitense Joseph Pulitzer (1847-1911); alla sua morte, lasciò tutti i suoi averi alla Columbia University. Il premio fu assegnato per la prima volta nel 1917. Per capire la differenza, basterebbe guardare alla storia dei premi, anche del passato recente. Gene Weingarten, del “Washington Post” ricevette il Pulitzer nel 2008: aveva raccontato come Joshua Bell, un famoso violinista (i biglietti per i suoi concerti si aggirano intorno ai 100$), fosse stato praticamente ignorato quando aveva suonato, travestito da musicista di strada in una stazione della metropolitana di Washington.
I premi di quest’anno, invece, sono andati alle cronache più choccanti dell’anno. Per il giornalismo, il Pulitzer della categoria servizio pubblico è stato assegnato al “The Post and Courier” per una serie di articoli intitolata “Till death do us part” sulle violenze nei confronti di più di 300 donne in South Carolina. Per la categoria “breaking news”, il premio è stato conferito alla redazione del “Seattle Times”, per la copertura della frana nella contea di Snohomish, nello Stato americano di Washington, che nel marzo del 2014 provocò 43 vittime. Per le inchieste, il Pulitzer è stato assegnato a Eric Lipton, un giornalista del “New York Times”, per aver svelato le attività dei lobbysti negli Stati Uniti che influenzano le sentenze di alcuni giudici. La redazione del “Wall Street Journal” ha ottenuto il Pulitzer per gli articoli investigativi sulle assicurazioni sanitarie negli Stati Uniti. Per la categoria giornalismo informativo, Zachary R. Mider di “Bloomberg News” ha ottenuto il premio per aver spiegato come alcune aziende statunitensi eludano le tasse. Il premio per il miglior giornalismo locale è stato assegnato a tre giornalisti del “Daily Breeze”, per un’inchiesta sulla corruzione in un distretto scolastico della zona. A tutta la redazione del “New York Times” è stato assegnato il Pulitzer per la categoria giornalismo internazionale, per la copertura del quotidiano sulla diffusione del virus Ebola. Anche la migliore foto giornalistica dell’anno, secondo la giuria del Pulitzer, riguardava la tragedia dell’Ebola e mostra due operatori sanitari in tuta gialla che trasportano in malo modo un bambino africano con il volto imbambolato dalla febbre. L’elenco è lungo ma non cambia la sostanza.
Neanche uno dei tanti riconoscimenti è stato assegnato ad una “buona” notizia, ad un’informazione che fosse in grado di cambiare in meglio la vita e le opinioni dei lettori. Ci sono poi i premi alla saggistica. “The Pope and Mussolini: The Secret History of Pius XI and Rise of Fascism in Europe” di David I. Kertzer ha ottenuto il riconoscimento nella categoria biografia. La tesi del libro, manco a dirlo, è che il Vaticano e il Papa abbiano supportato attivamente l’ascesa al potere di Mussolini. Un modo vecchio di fare storia. Un modo vecchio di narrare la realtà dove il ragionamento, la riflessione e il pensiero critico devono lasciare il passo all’emozione facile, alla superficialità e alla banalità dell’affermazione apodittica e fine a se stessa.

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