elezioniregionaliFrancesco Bonini

C’era un tempo in cui le elezioni regionali avevano un “significato politico”: il secondo governo D’Alema, ad esempio, cadde proprio per questo motivo.
Le elezioni del prossimo 30 maggio, invece, sono molto depotenziate. Intanto si vota solo per sette governatori, perché molte altre Regioni, per scandali vari, sono state costrette a rinnovare anzitempo. Ma soprattutto perché se c’è una cosa sicura nel sempre complicato sistema politico italiano è la leadership di Matteo Renzi, che guarda con tranquilla risolutezza alla scadenza della legislatura – soltanto riservandosi se eventualmente decretarne la fine anticipata.
Fissato questo punto fermo, i motivi di interesse per queste elezioni sono almeno due. Il primo è relativo allo stato di salute dell’istituzione Regione. Rottamate le Province – con un processo ancora molto complicato da attuare – bisognerà mettere mano ad una istituzione che sta per compiere cinquant’anni, ma necessita di un’importante ristrutturazione. Oggetto di scandali a ripetizione, molto diverse nella taglia e dunque nella sostenibilità, le Regioni italiane non hanno dato una prova brillante.
Uno dei motivi di perplessità della riforma costituzionale è proprio legare il Senato ad una istituzione senza smalto e ad una classe politica che si è rivelata di livello molto modesto.
Qui si innesta il secondo motivo di interesse per l’appuntamento elettorale del 30 maggio. I risultati dovrebbero confermare un assetto del sistema politico ben lontano dallo schema bipolare, per cui, intorno ad una aggregato maggioritario, orbitano forze diverse e tra loro non assimilabili. Tutte le forze politiche comunque sembrano sottoposte ad un processo di frantumazione locale e localistica. Gli effetti sono meno evidenti ovviamente nello spazio maggioritario rappresentato dal Pd e molto di più nell’area del centro-destra, ma le forze politiche (e si dovrà valutare la “diversità” del M5S) sembra si stiano sfarinando in una moltitudine di realtà di potere locale, che si aggregano o sono aggregate da leadership o attori nazionali, ma sembrano soprattutto interessate a muoversi secondo logiche loro proprie. Si tratta di una ristrutturazione in senso neo-notabilare del sistema della rappresentanza, che cortocircuita o utilizza i partiti, con esiti imprevedibili sulla qualità della rappresentanza e dunque della produzione di politiche pubbliche. Che poi è il vero punto: continuiamo infatti ad appassionarci alle combinazioni tra le forze politiche e dentro le stesse, ma conta sempre di più, in particolare proprio per il livello regionale, in cui si concentrano flussi molto significativi di spesa – e dunque di welfare – la qualità delle performance. Tenuto conto anche del fatto che, per mantenere nominalmente ferma la tassazione nazionale, si innalzano quella regionale e locale. Su cui qualcosa sarebbe bene dire con chiarezza. Se, dopo l’infinita questione della definizione delle candidature, ci sarà spazio anche per i programmi.

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