Pasqua (11)

DIOCESI – Pubblichiamo la lettera del Vescovo Carlo Bresciani ai sacerdoti della Diocesi:

“Carissimi sacerdoti,
la celebrazione liturgica del giovedì santo, in particolare la S. Messa crismale che ci vede riuniti a rinnovare le nostre promesse sacerdotali, ci induce a sostare ancora una volta nella meditazione sul nostro sacerdozio come un grande dono di Dio a noi stessi e alla Chiesa.

È per me fonte di grande gioia e consolazione pensare al prezioso ministero che state svolgendo nella nostra diocesi, non senza fatiche e sacrifici che solo il Signore conosce e che solo a Lui confidate nell’intimità della preghiera, certi di essere capiti e confortati. Insieme a voi lodo e ringrazio il Signore e per voi lo prego ogni giorno perché vi dia consolazione e salute. Vi sento preziosi collaboratori del mio ministero episcopale, ricchezza della vivacità della fede della nostra amata diocesi.

Noi siamo un dono che il Signore ha fatto alla sua Chiesa, perché essa cresca santa e immacolata, si diffonda sempre più sulla terra per il bene degli uomini e a gloria di Dio. Ciò esige che noi abbiamo ad approfondire sempre più non solo il nostro intimo rapporto personale con Lui, ma anche con la Chiesa: essa ci ha generato alla fede, in essa e con essa siamo chiamati a vivere la nostra fede, per essa tutto il nostro ministero. Siamo chiamati ad amarla come Gesù l’ha amata e “ha dato se stesso per lei” (Ef 5,25). Siamo preti per il ministero a servizio della Chiesa, pronti là dove la Chiesa ritiene di avere bisogno di noi. Siamo preti non per noi stessi, ma per edificare la Chiesa di nostro Signore, chiamati da Lui ad essere annunciatori nel mondo di oggi del suo Vangelo. Il modello del nostro ministero è innanzitutto Lui, Gesù che predica l’amore di Dio a tutti accompagnando la sua predicazione con atti concreti di amore. Il nostro amore alla Chiesa deve essere modellato sul suo. La nostra dedizione alla Chiesa ha come misura quella di Gesù stesso.

Con l’ordinazione sacerdotale, in risposta a una singolare chiamata di Dio, abbiamo donato la nostra vita per la Chiesa e siamo così entrati a far parte del presbiterio diocesano che unito, sotto la guida del vescovo, si dedica alla vita e alla cura della nostra amata Chiesa diocesana. L’amore e la dedizione alla nostra Chiesa è l’anima della nostra spiritualità presbiterale. “Il ministero del presbitero è totalmente a favore della Chiesa” (Pastores dabo vobis, n. 16). Constato ogni giorno, e nelle visite che ho occasione di fare alle parrocchie, quanto sia grande la vostra dedizione e quante buone intenzioni animino le vostre fatiche pastorali: mi siete di stimolo e di incoraggiamento nel mio ministero episcopale e per questo porto profonda gratitudine a tutti voi. Il Signore vi ricompensi di tanta fatica e di tanto amore, spesso non considerato neppure dai nostri fedeli.

Siamo parte di un unico presbiterio: significa che l’esercizio del nostro ministero non può prescindere da questa verità fondamentale e ne è l’espressione. Non si tratta solo di una appartenenza affettiva (che certamente è ricchezza di relazioni fraterne da sviluppare e coltivare sempre più) o di affinità personali, ma di unità di intenti e di azione per il bene della Chiesa. Se l’essere incorporati nel presbiterio diocesano (cosa che avviene con l’ordinazione) è presupposto per l’esercizio del ministero, l’unità con il presbiterio diocesano resta la condizione che deve accompagnarne l’esercizio effettivo.

Non siamo chiamati e mandati a portare noi stessi o i nostri progetti personali, ma a costruire la Chiesa diocesana nella sua unità, in modo che manifesti a tutti l’unità del corpo di Cristo e non la sua frammentazione, la bellezza del corpo di Cristo risorto e non quella del corpo martoriato e dilaniato dalla passione e crocifissione. Attraverso la nostra unità siamo chiamati a manifestare la veste inconsunta di Cristo, non le vesti lacerate che la soldataglia, bramosa di possedere, si è divisa ai piedi della croce. Anche quando, come ministri, siamo chiamati a stare come guide di comunità di fronte alla Chiesa (cfr. Pastores dabo vobis, n. 16) non assumiamo l’atteggiamento dell’autoriferimento, non poniamo noi al centro, ma operiamo sempre inseriti nel plesso dei rapporti con il presbiterio, legati quindi da vincoli di comunione con altri ministri (in primo luogo con il vescovo) cui dobbiamo rendere ragione del nostro servizio ministeriale nella Chiesa diocesana. Se ci togliessimo da questa unità impoveriremmo noi stessi, impoveriremmo la Chiesa e renderemmo più faticoso il ministero dei fratelli nel sacerdozio. Gli stessi fedeli, al cui servizio siamo destinati, giustamente si aspettano di essere da noi concordemente guidati all’unità della Chiesa diocesana.

Come ogni corpo, anche quello di Cristo che è la Chiesa (cfr. Col 1, 24), è fatto di molte membra ognuna con la propria specifica funzione. L’unità, ben lo sappiamo, non è data dalla uniformità delle membra, ma dall’azione convergente di tutte le membra. La ricchezza è data dalla diversità, ma solo se questa è riportata all’unità di intenti che diventa vera solo quando si concretizza nell’unità di azione. Quando nel corpo un membro agisce non in armonia con gli altri, o peggio contro gli altri, anche solo per il fatto che va per la sua strada, il corpo si ammala. Il singolo membro magari si ingrossa e ottiene maggiore visibilità e apprezzamenti di qualcuno, ma il corpo si deforma e si ammala.

Fuori di metafora: la bellezza di essere parte di un unico presbiterio comporta l’impegno, mai concluso, di  armonizzare l’azione di ogni membro con il tutto della Chiesa diocesana e questo per il bene di tutti. Non si tratta di mortificare le singole nostre personalità, ma di esprimere al meglio il senso e il valore dei doni che Dio ha dato a ciascuno. Non si tratta di dedicarsi di meno alla pastorale parrocchiale, ma di operare in modo che la parrocchia risplenda come membro di una realtà più grande e dalla quale prende senso: la Chiesa diocesana. Il presbitero “è servitore della Chiesa comunione perché — unito al Vescovo e in stretto rapporto con il presbiterio — costruisce l’unità della comunità ecclesiale nell’armonia delle diverse vocazioni, carismi e servizi” (Pastores dabo vobis, n. 16).

Non è questione solo di pratiche pastorali, magari opinabili, o dell’adozione di visioni ecclesiologiche nuove cui ci ha introdotto in modo più corretto il Concilio Vaticano II – di cui celebriamo il 50mo anno dalla sua conclusione -, è questione soprattutto del nostro modo di essere preti, della nostra identità e della nostra spiritualità; in altre parole, del nostro modo di essere preti nella nostra Chiesa e per la nostra Chiesa.

Carissimi sacerdoti, mentre in comunione con Gesù celebriamo la memoria liturgica dell’ultima cena da Lui consumata in comunione intima con i suoi apostoli e mentre rinnoviamo convintamente la nostra volontà di seguirlo sulla strada dell’annuncio del Vangelo imitando san Paolo che non risparmia nessuna fatica per piantare la Chiesa in terra pagana, gustiamo anche la gioia spirituale di appartenere al nostro presbiterio e alla nostra Chiesa diocesana. Il Signore ci aiuti a renderla sempre più una e santa, così che possa essere luce e faro per noi e per coloro che vagano nel mare agitato del nostro tempo.

Abbraccio ciascuno di voi con il bacio della pace. Il Signore vi benedica tutti”.

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