longoniDi Luigi Crimella

Da qualche giorno circolano in Italia dati positivi: aumenta la fiducia d’imprese e consumatori, sembra avviarsi la riforma del Jobs Act con migliaia di assunzioni coi nuovi contratti a tutele crescenti (anche se qualcuno dice che sono semplici ‘trasformazioni’ di contratti già in essere). Il denaro della Bce ha impresso slancio alle borse, gli “umori” internazionali volgono al bello. L’Italia sta per ripartire dopo tanti anni di crisi? Lo abbiamo chiesto a monsignor Fabiano Longoni, direttore dell’Ufficio nazionale di pastorale sociale e del lavoro della Cei.

Anzitutto uno sguardo sulla crisi italiana, sui tanti disoccupati, sulle aree specie del Sud con uno sviluppo precario: viste dagli Uffici di pastorale sociale e del lavoro della Cei e delle diocesi, che panorama si coglie?
“Il panorama è di una certa fiducia, dopo le lunghe nebbie di una crisi che è stata certamente la peggiore del dopoguerra, forse anche peggio di quella del 1929 con cui è stata paragonata. Da un punto di vista pastorale, da un lato siamo chiamati a rinforzare l’ottimismo e la fiducia che sono ingredienti fondamentali per uscire da una specie di depressione collettiva; dall’altro contribuire a far recuperare la stima nelle energie presenti nel nostro Paese, che sono notevoli come prova la vasta struttura produttiva che nonostante tutto ha resistito. Come ci ricorda il Papa, siamo tutti chiamati a cambiare un paradigma economico, tornando a mettere al centro l’uomo”.

Lei parla di uomo, quindi di “umanesimo”, ma quale in una economia così complessa?
“Penso chiaramente all’insegnamento della dottrina sociale cattolica, che si fonda sul Vangelo e – come tratteremo al Convegno ecclesiale decennale di Firenze in autunno – sulla figura di Cristo, colui che ha ‘lavorato con mani di uomo’ come ci dice il Concilio. L’umanesimo cristiano incarna la capacità di rinnovamento dei singoli e della società e non lascia i destini degli uomini, specie i più deboli, in mano a forze astratte o oscure, quali le fredde leggi di mercato, la finanza speculativa, la corruzione”.

Miliardi di euro iniettati nel sistema dalla Bce, calo del petrolio, euro che si avvicina alla parità sul dollaro. Anche lei è dell’avviso che siamo vicini alla svolta?

“Credo di sì. Intanto si sta lentamente passando da una rigida ‘austerità’ per tenere sotto controllo i debiti sovrani a una timida apertura a investimenti per la crescita. Dove è avvenuto, in Usa e Giappone, i risultati si sono visti. Certo, occorrerebbe pensare anche a riduzioni della spesa pubblica e della tassazione che da noi risulta ‘eccessiva’, come ha detto il cardinale Bagnasco recentemente, insieme a una drastica riduzione dell’evasione fiscale. Inoltre anche lo Stato dovrebbe fare la sua parte, con i dovuti tagli agli sprechi nel bilancio pubblico, come evidenziato nella relazione del commissario Cottarelli. La politica in tutto questo ha una grande responsabilità”.

Eppure la disoccupazione non arretra, ferma al 12,7%, il 30% in più della media europea. È un fatto ineluttabile?
“Sembra che Il 2015 sarà ancora un anno di ‘sostituzione’, nel senso che non dovrebbe esserci una grande occupazione aggiuntiva. I primi dati certi del Jobs Act li avremo – si dice – entro un semestre. Da un punto di vista pastorale, per noi è importante puntare su giovani consapevoli che il lavoro cambia, che chiede applicazione e creatività. Oggi la tecnologia è protagonista, abbiamo necessità di giovani ‘menti’ che si applichino. Non dobbiamo lasciar fuggire all’estero i nostri cervelli migliori. Dobbiamo dire a voce alta che senza giovani il Paese non si muove. Ci servono persone creative che sappiano fare cose belle. L’Italia, in fondo, è una specie di Silicon Valley molto lunga e diffusa. Non è sostenuta come quella californiana, ma abbiamo dato ottime prove di creatività e lavoro, come mostrano i tanti gruppi produttivi ancora presenti”.

Di chi è compito il far capire l’importanza di tenere in Italia i giovani?

“Di tutti. Fatto salvo il valore educativo di esperienze all’estero, che sono indubbiamente utili, non bisogna indurre nella convinzione che altrove sia meglio che da noi. Tocca alla Chiesa col suo impegno educativo, ma anche alle famiglie che sono chiamate a inculcare nei figli il senso del dovere e della responsabilità. Tocca anche alla politica, chiamata a sostenere l’immagine di un Paese fatto di gente laboriosa e produttiva. Si dovrebbe ad esempio ricominciare a proporre ai giovani dei ‘lavoretti’ estivi, perché comprendano il valore del sudore quotidiano, come si faceva un tempo. Certo senza sfruttare i minori e senza farli lavorare ‘in nero’”.

In Italia la comunità cristiana ha espresso sin dall’800 la bella realtà della formazione professionale, delle cooperative, delle casse rurali. Sono esperienze ancora valide?
“Direi senz’altro di sì. Per i centri di formazione professionale come Chiesa ci sentiamo molto interpellati, anche perché nel progetto ‘Buona Scuola’ ci sembrano non adeguatamente valorizzati. Quanto alla generatività di micro-imprese spesso innovative, penso al Progetto Policoro che ha dato vita a notevoli realtà tra tanti giovani di aree difficili. Per non parlare del credito cooperativo, nato nell’800 proprio per venire incontro a quei contadini e artigiani cui le grandi banche non davano credito”.

Quindi, per concludere, la Chiesa ha ancora qualcosa da dire all’economia?

“La dottrina sociale insegna che il lavoro è per l’uomo e non il contrario. Insegna anche che l’uomo è chiamato a un impegno responsabile e fattivo, perché il mondo venga trasformato con una azione rispettosa del creato e delle sue leggi. Questo è il cuore dell’insegnamento cristiano che non va contro le leggi di mercato, ma le orienta al bene comune come suprema legge di fraternità”.

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