Boko AramDi Davide Maggiore

È Muhammadu Buhari, candidato della forza d’opposizione All progressives congress (Apc), il nuovo presidente della Nigeria. Ha ottenuto, secondo i dati della commissione elettorale il 53,2% dei voti contro il 45,6% del suo avversario più vicino, il presidente uscente Goodluck Jonathan, del People’s democratic party (Pdp). La stampa nigeriana e internazionale definisce unanimemente ‘storico’ questo risultato: è la prima volta dal 1999, data del ritorno della democrazia in Nigeria, che un capo di Stato in carica viene sconfitto dal candidato dell’opposizione.

Uomo forte. La giornata è stata storica anche per lo stesso Buhari, perché segna un ritorno al potere: la prima volta lo aveva letteralmente conquistato, da generale, arrivando al vertice dello Stato dopo il golpe del dicembre 1983 contro il presidente eletto Shehu Shagari. L’allora poco più che quarantenne militare sarebbe rimasto in carica venti mesi, fino all’agosto 1985, quando fu deposto da un altro generale, Ibrahim Babangida. L’ex dittatore sarebbe stato poi sconfitto tre volte nel tentativo di tornare democraticamente al governo: nel 2003, 2007 e 2011, nell’ultimo caso avendo proprio Jonathan come avversario. A cambiare il risultato, stavolta è stata la somma delle debolezze del presidente uscente – la cui popolarità è crollata soprattutto per la vulnerabilità dimostrata dal Paese di fronte agli attacchi della setta fondamentalista Boko Haram – e la fama di “uomo forte” del suo avversario: “Jonathan ha dato l’impressione di non saper governare un Paese così complesso come la Nigeria, Buhari, da capo dello Stato, aveva mostrato di voler combattere anche la corruzione” sia pur con metodi autoritari, spiegano dal Paese fonti raggiunte dal Sir.

Appello alla pace.
Il bisogno di sicurezza e il desiderio di veder fermata la corruzione – che secondo molto analisti è stato anche uno dei fattori che ha tolto all’esercito mezzi per rispondere efficacemente a Boko Haram – spiegano probabilmente anche l’ampiezza della vittoria di Buhari, che ha prevalso in 21 Stati sui 36 (più il distretto della capitale Abuja) che compongono la federazione nigeriana. La sua affermazione è stata estremamente netta in alcuni dei territori (come Borno e Yobe, dove ha ottenuto rispettivamente il 92% e il 94% circa dei voti), più colpiti da Boko Haram, ma ha riguardato anche il sud (emblematico il 54% ottenuto dall’Apc nel principale centro economico del paese, Lagos). Fedeli a Jonathan sono rimasti solo gli Stati del sudest (l’ormai ex presidente è originario di uno di essi, Bayelsa) dove il governo ha sfiorato il plebiscito (in otto territori, i voti per il capo di stato uscente hanno superato il 90%) e poche altre regioni, tra cui la capitale. Le dinamiche del voto, dunque, hanno superato quelle della semplice appartenenza etnica e religiosa, in un Paese spesso descritto come spaccato tra un Nord a prevalentemente islamico e un Sud a maggioranza cristiana. In queste ore sono altre le divisioni che preoccupano, tutte politiche: già durante il conteggio, il Comitato nazionale per la pace, presieduto dall’ex presidente (e generale) Abdulsalami Abubakar, che ha come suo vice il vescovo cattolico di Sokoto, Matthew Hassan Kukah, aveva rivolto alla popolazione un appello “a restare calmi, in modo da assicurare che alla fine sia la nazione a vincere”.

Sconfitta riconosciuta.
L’auspicio, per ora, si è avverato, anche perché le azioni di Boko Haram hanno avuto un impatto limitato sul voto e “non sono riuscite a interrompere il processo elettorale”, come ha spiegato l’inviato speciale dell’Onu per l’Africa occidentale, Mohamed ibn Chambas. Un altro fattore che ha influito è stata certamente la pronta accettazione della sconfitta da parte di Jonathan: il conteggio dei voti non era ancora terminato quando il presidente uscente ha telefonato al suo avversario per congratularsi, riconoscendo il risultato. Buhari, da parte sua, ancor prima di pronunciare il discorso di accettazione, si è rivolto ai suoi sostenitori, scesi in piazza in varie parti della Nigeria, chiedendo loro di evitare attacchi contro gli elettori della forza rivale. “Chi fa questo, chiunque egli sia, non è con me”, ha affermato. Sembrano dunque esserci molte premesse per evitare il sanguinoso epilogo del 2011, quando gli scontri post-elettorali portarono alla morte di circa 800 persone.

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