EuropaUn chilo di carne o di zucchine, o magari di riso, oppure un litro di latte, non costano a Sofia un decimo rispetto a quanto li pagheremmo a Copenaghen.
Lo stesso dicasi per un libro, un biglietto del cinema, la benzina, un’automobile, un appartamento. Eppure il costo del lavoro (e, pur con qualche scostamento, la paga oraria) in Bulgaria è, in media, un decimo di quello in Danimarca: 3,8 euro lordi nel primo caso, 40,3 nel secondo. Misteri dell’economia e del mercato unico europeo.
È quanto rivela Eurostat con una ricerca riguardante il costo della manodopera pubblicata il 30 marzo, senza molta enfasi mediatica. Dalle tabelle risulta che il costo orario lordo – comprensivo degli elementi salariali e degli oneri fiscali, sociali, previdenziali – nei 28 Paesi Ue è assai differenziato da un capo all’altro del vecchio continente. A un’impresa italiana (dall’indagine sono esclusi solo il settore agricolo e la pubblica amministrazione) un’ora di lavoro costa 28,3 euro; in Germania si sale a 31,4 euro. Ancora più su la Francia con 34,6 euro; nel Regno Unito si scende a 22,3 e in Spagna a 21,3. Quindi si precipita in Polonia a 8,4. Nei Paesi dell’Europa centro-orientale il dato è sempre modesto: Romania 4,6 euro l’ora, Lituania 6,5, Lettonia 6,6… Si sale, invece, in Belgio (39,1), Svezia (37,4), Lussemburgo (35,9).
Gli economisti ci fornirebbero ragioni plausibili per questa differenza abissale. Introdurrebbero elementi macroeconomici, riflessioni sulla capacità competitiva, sulla produttività, sull’organizzazione imprenditoriale e del lavoro, sulla contrattazione sindacale, sui diritti dei lavoratori, sul costo della vita, ovvero sul livello dei prezzi al consumo. E, ovviamente, sul carico fiscale che grava sulle attività produttive e sugli stessi salari. Tutto vero.
A noi restano semplici dubbi. Un operaio di Vilnius, una casalinga di Lisbona oppure una di Voghera, un ferrotranviere di Stoccolma e una maestra di Francoforte quando vanno a fare la spesa non avranno tutti lo stesso pensiero? Cioè riempire il carrello senza lasciarci l’intero stipendio. E, non di meno, la fatica di un tessitore o di un carpentiere ungherese e di un collega britannico o finlandese, non è esattamente la stessa, tanto da lasciar pensare – in termini di equità – anche alla medesima paga? Ancora: se in Europa si sta costruendo il “mercato unico”, non dovrebbero esserci livelli salariali e pressioni fiscali sul lavoro se non identiche quantomeno simili o almeno comparabili?
Sono interrogativi cui Eurostat, ufficio statistico dell’Unione europea, non è tenuto a dare risposta. Ma forse qualcun altro, magari a livello politico ed economico, potrebbe aiutarci a far chiarezza.

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