SerbiaDi Michela Mosconi

Sembrano guardarsi dritti negli occhi Senigallia, la città marchigiana che si affaccia sul mare, e Bare il piccolo villaggio della parrocchia di Solakova Kula, nella parte centrale della Bosnia ed Erzegovina. Nella cartina geografica si trovano esattamente l’una di fronte all’altro, dirimpettai separati dalle acque calme dell’Adriatico ma uniti da un’amicizia lunga 18 anni. Da quando nel 1997, alla fine della guerra, la diocesi di Senigallia, attraverso l’Azione cattolica, ha avviato un gemellaggio con una parrocchia di montagna della diocesi di Sarajevo. Undici lunghe ore di macchina che non indeboliscono la volontà di creare un legame solido con la gente bosniaca, con un Paese lacerato e diviso dalla guerra, con una chiesa locale che, spiega Laura Mandolini, presidente diocesana di Ac di Senigallia, “vuole annunciare e vivere il perdono, la riconciliazione e il rispetto della dignità umana”.

Gli anni del post conflitto sono anche quelli in cui la Chiesa cattolica di Bosnia lancia l’idea di scambi con realtà ecclesiali straniere per essere aiutata e incoraggiata nella difficile fase della ricostruzione. L’Italia, in particolare, ha risposto al monito di cui si è fatto portavoce il vescovo ausiliare di Sarajevo, Pero Sudar. Da Milano, Parma, Senigallia e da tante altre parti del Paese, il suo appello è stato accolto in maniera compatta, alimentando un interesse per quella parte di Europa e un’amicizia confermata anche dalla presenza, proprio in questi giorni a Roma, dei presuli della Conferenza episcopale della Bosnia ed Erzegovina per la loro visita “ad limina” da Papa Francesco, prologo del viaggio che il Pontefice farà a Sarajevo il prossimo 6 giugno. “Dal primo viaggio in terra bosniaca non siamo mai mancati – continua Mandolini – andiamo due volte tutti gli anni: il 29 giugno, festa dei Santi Pietro e Paolo, patroni dell’unica chiesa rimasta intatta e che si trova a Bare. Per l’occasione i tanti bosniaci della diaspora rientrano e facciamo festa insieme. Se non andiamo si chiedono come mai non ci sia nessun italiano. Torniamo poi ad agosto, per un viaggio di conoscenza”.

La parrocchia di Solakova Kula,
nella verde valle del fiume Neretva, si sviluppa nelle montagne tra la Bosnia e l’Erzegovina. Raggruppa piccoli villaggi, abitati per lo più da anziani. Una zona svantaggiata, colpita da un forte spopolamento e a cui la guerra ha dato il colpo finale. “Di noi dicono che siamo ‘i loro figli italiani’ perché dal ‘97 non siamo mai mancati. E’ sempre stato un luogo da cui sono arrivate tante vocazioni, lo stesso mons. Sudar proviene da lì”. A guerra appena conclusa i marchigiani si sono messi a disposizione per far fronte all’emergenza: “sostegno alle famiglie, sistemazione di un tratto di strada, acquisto di attrezzature per il lavoro nei campi, acquisto di un gregge di pecore, ristrutturazione del tetto della chiesa parrocchiale o della cancellata di recinzione”. Ora continuano un cammino di vicinanza, amicizia e apertura a quanto da Solakova Kula viene richiesto. “E’ stata la nostra grande scommessa, camminare insieme per un lungo tratto di strada e non fermarci nel momento in cui l’emozione per la guerra si è sopita. Vogliamo collaborare con la Chiesa locale nel tenere viva la tradizione cristiana. Il nostro sostegno è rivolto anche alle scuole cattoliche interetniche sparse nel Paese”. Nel frattempo è anche nata una casa che ospita la delegazione marchigiana nel suo peregrinare. È la Susreta Kuča (Casa dell’Incontro), accogliente struttura inaugurata nel 2013. “Vi trovano spazio – spiega Mandolini – insegnanti e personale delle Scuole per l’Europa per i loro corsi di formazione, viene utilizzata per campi scuola o esercizi spirituali. Anima in modo diverso e con tante possibilità quella zona che, diversamente, sarebbe stata abbandonata a sé stessa”. La Casa è oggi un punto di riferimento per i pochi cattolici rimasti e promuove iniziative caratterizzate da spirito di tolleranza e riconciliazione. “In questi villaggi, adesso a maggioranza musulmana, le persone collaborano insieme senza problemi. A Bare, per esempio, la chiesa si è salvata perché i musulmani non hanno voluto che la distruggessero”.

Un punto di vista condiviso anche da Vikica Vujica, assistente alla Facoltà Teologica di Sarajevo. Vikica ha conosciuto la delegazione di Senigallia nel 2004, a Sarajevo, e da allora, operando anche come traduttrice, è parte integrante del gemellaggio tra le due realtà diocesane. “Cattolici e musulmani si aiutano nelle faccende quotidiane come può essere l’estrazione del miele”. “Se non ci fosse questo gemellaggio – continua – probabilmente non esisterebbe più la parrocchia. C’è una sensazione di vita, di vicinanza che ha permesso a queste persone di andare avanti. Molto attivo è Josip Majić, giovane parroco che oltre alla sua attività pastorale, fa il giro delle case per visitare gli abitanti portando loro cibo e medicine”. La Bosnia ed Erzegovina non è mai stata così vicina all’Italia. La solidarietà e la speranza azzerano le distanze e sono l’unica via che vale davvero la pena percorrere. Zajedno, insieme.

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