DIOCESI – Nella memoria liturgica di Santa Francesca Romana, si è tenuto lunedì mattina, nella cattedrale Santa Maria della Marina, in San Benedetto del Tronto, un incontro diocesano di tutte le donne della spiritualità vedovile “Speranza e Vita”.
All’incontro è seguita la celebrazione eucaristica presieduta dal Vescovo Carlo che durante l’omelia ha posto l’accento sui due personaggi presentati nelle letture della liturgia del giorno: Naamàn, il Siro, prode comandante dell’esercito del re di Aram che aveva contratto la lebbra, e, dall’altra parte, Gesù che presenta la vedova di Sarèpta di Sidòne.

Lasciamoci guidare da questi due personaggi nella nostra riflessione – ha detto il Vescovo Bresciani – Naamàn, il lebbroso, che, come tutti noi di fronte alla malattia, desiderava la guarigione, viene a sapere, attraverso le vie che solo il Signore conosce, che c’è un profeta in Israele e pensa che se va da quel profeta forse può ottenere da Dio la guarigione“. Naamàn pensa di dover “acquistare” da Dio il dono della salute con la ricchezza che egli possiede, ma Dio gli dice, attraverso il profeta, che per guarire deve fare un gesto estremamente semplice: immergersi nelle acque del fiume Giordano. Che cosa ci insegna Dio? Ci insegna che ciò che conta è l’umiltà; ci dice “Sii umile“, ci dice di non guardare alle cose esteriori, basta anche un piccolo gesto, perché ciò che conta è come esso viene fatto:”Di fronte a Dio come ci troviamo? Possiamo acquistare qualcosa da Lui? Qualunque cosa noi potessimo dare in cambio, non basterebbe mai. Dio, da noi, vuole che riconosciamo la Sua grandezza, che riconosciamo che Lui ci salva indipendentemente dai nostri meriti. Il Signore ci salva nonostante il nostro peccato, se noi lo riconosciamo. Ecco il cammino di conversione: riconoscere che Dio ci salva gratuitamente, attraverso la nostra disponibilità, la nostra apertura e la nostra umiltà. Non ci salva perché siamo figli di Dio ma perché riconosciamo Lui come Dio“.

La vedova di Sarèpta di Sidone, invece, era una vedova che si trovava a vivere con l’unico figlio durante un lungo periodo di carestia; ella divide quel poco di cibo che le rimane con il profeta Elìa pensando di morire perché non le rimane più niente. Gesù la ricorda perché è molto simile alla vedova che aveva visto, nel Tempio, gettare due spiccioli, le uniche cose che aveva. Quello che distingue le gesta di queste due vedove è l’amore con il quale le fanno, quell’amore che esalta la carità nel senso più vero e profondo del termine, l’amore interiore che si esprime con gesti esteriori molto semplici ma che ne rivelano la ricchezza insita. “Una vedova è provata nel dolore e nella privazione del marito  ha concluso il Vescovo Carlo  fattore che affina la sensibilità nei confronti degli altri. A volte il dolore ha questo effetto, porta ad un aspetto positivo e cioè a quella giusta sensibilità verso il dolore e verso il bisogno degli altri. Ed è questo aspetto che ha portato la Chiesa, fin dall’inizio, a costruire l’Ordine delle Vedove che si rendono disponibili alle necessità degli altri. Gesù ricorda queste due vedove con grande stima perché l’esempio che esse danno, non è dovuto alla vedovanza in sé ma è la ricchezza che dalla vedovanza può essere generata. La carità e l’umiltà sono due concetti fondamentali per la vita di tutti i cristiani perché messe insieme ci aiutano a metterci in un rapporto più sincero e veritiero con Dio. La carità non ci fa chiudere su noi stessi, sulle nostre mancanze, sulle nostre privazioni e sulla nostra sofferenza, ma ci porta a condividere i due spiccioli della vedova che non sono solo i due spiccioli dal punto di vista materiale, ma anche i due spiccioli di quella nostra presenza e di ciò che il Signore ci ha aiutato a maturare perché abbiamo a condividerlo con tutti. L’umiltà ci serve per costruire relazioni pacifiche riconoscendo nell’altro la sua grandezza, la sua dignità come persona che merita di essere accolta. L’esempio supremo di questa umiltà è Gesù, seguiamo Lui lungo questa via“.

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