Raniero CantalamessaZenit, di Federico Cenci

Non insistere ossessivamente sulle differenze, bensì mettere insieme ciò che ci accomuna e ci unisce in un’unica fede. È un filo conduttore ecumenico, quello che attraverserà da questo venerdì le meditazioni quaresimali di padre Raniero Cantalamessa. Il predicatore della Casa Pontificia afferma di esser stato convinto a intraprendere questa scelta dal recente incontro, in Turchia, di papa Francesco con il Patriarca ortodosso Bartolomeo, e soprattutto dalla esortazione del Pontefice “a condividere in pienezza la comune fede dell’Oriente cristiano e dell’Occidente latino”.

Un desiderio di condivisione – osserva padre Cantalamessa – “non nuovo”. Volgendo lo sguardo al passato più o meno recente, egli fa riferimento in particolare alla Unitatis redintegratio del Concilio Vaticano II e alla lettera apostolica di Giovanni Paolo II Orientale lumen, uscita nel 1995.

Di papa Wojtyla, padre Cantalamessa ricorda che promosse l’invito a “mettere in comune le tante cose che ci uniscono e che sono certamente di più di quelle che ci dividono”. Il sacerdote rileva che nel mondo di oggi, il quale si pone domande e ha interessi diversi da quelli di un tempo e che neanche “comprende più il senso di tante nostre sottili distinzioni”, si fa necessario “rovesciare la tendenza” a insistere su ciò che ci distingue a beneficio di un ecumenismo basato sulla seguente formula: “Condividere ciò che abbiamo in comune per poi risolvere, con pazienza e rispetto reciproco, le differenze”.

Padre Cantalamessa osserva che “il risultato più sorprendente” di questo cambiamento di prospettiva è che le differenze dottrinali, anziché apparirci come “errore” o “eresia”, “cominciano ad apparirci sempre più spesso come compatibili con la propria posizione e, spesso, addirittura come un necessario correttivo e un arricchimento di essa”. Del resto, citando il pensatore pagano del IV secolo Quinto Aurelio Simmaco, il frate cappuccino ricorda che “a un mistero così grande non si può pervenire con una sola strada”.

È per questo che padre Cantalamessa vuole mostrare “la bellezza e la gioia di ritrovarci in vetta (Ortodossi e Cattolici, ndr) a contemplare lo stesso meraviglioso panorama della fede cristiana, anche se giunti da versanti diversi”. E la prima scalata inizia affrontando il mistero della Trinità, ciò che il padre cappuccino chiama “la montagna più alta, l’Everest, della fede”.

Tra le colonne portanti della fede dei Cristiani d’Oriente e d’Occidente, il mistero della Trinità viene tuttavia espresso in modo differente. Padre Cantalamessa sintetizza così la questione: “I greci e i latini, nella considerazione della Trinità, muovono da versanti opposti; i greci partono dalle persone divine, cioè dalla pluralità, per giungere all’unità di natura; i latini, viceversa, partono dall’unità della natura divina, per giungere alle tre persone”.

Oggi si è soliti preferire l’espressione della Trinità dei greci, che padre Cantalamessa definisce con le seguenti parole: “Il Padre è la fonte, l’origine assoluta del movimento d’amore. Il Figlio non può esistere come Figlio se, anzitutto, non riceve dal Padre tutto ciò che egli è”. Pertanto, “il Padre è il solo, anche nell’ambito della Trinità, a non aver bisogno di essere amato per poter amare. Solo nel Padre si realizza la perfetta equazione: essere è amare; per le altre persone divine, essere è essere amato”.

La teologia greca ha così definito “lo schema e l’approccio giusto per parlare della Trinità”, riflette padre Cantalamessa, che aggiunge però: “Il pensiero latino ha assicurato ad esso, con Agostino, il contenuto di fondo e l’anima, che è l’amore”. Il noto vescovo di Ippona “fonda il suo discorso della Trinità sulla definizione ‘Dio è amore’”, per cui vede “nello Spirito Santo l’amore mutuo tra il Padre e il Figlio, secondo la triade amante, amato, amore”.

Secondo il predicatore della Casa Pontificia, la Chiesa ha la necessità di “tenere aperte e percorribili entrambe le vie al mistero trinitario”. Detto schematicamente: “La Chiesa ha bisogno di accogliere in pienezza l’approccio dell’Ortodossia alla Trinità nella sua vita interna, cioè nella preghiera, nella contemplazione, nella liturgia, nella mistica; ha bisogno di tener presente l’approccio latino nella sua missione evangelizzatrice ad extra”.

Ma evangelizzare la società contemporanea parlando della Trinità come ne parlano i teologi potrebbe significare “mettere sulle spalle della gente un peso che non è capace di portare”. Per cui – rileva padre Cantalamessa – “la Chiesa deve trovare il modo di annunciare il mistero di Dio uno e trino con categorie appropriate e comprensibili agli uomini del proprio tempo”. Per fare questo può attingere al pensiero di sant’Agostino, che ha come perno l’amore.

Dall’amore, il predicatore della Casa Pontificia passa a parlare dell’adorazione. Il bisogno di adorare la Trinità è ciò che unisce Oriente e Occidente “senza più alcuna differenziazione”. “Adorare la Trinità, secondo uno stupendo ossimoro di san Gregorio Nazianzeno, è elevare ad essa ‘un inno di silenzio’”, afferma padre Cantalamessa. Che aggiunge: “Adorare è riconoscere Dio come Dio e noi stessi come creature di Dio. È ‘riconoscere l’infinita differenza qualitativa tra il Creatore e la creatura’, riconoscerla però liberamente, gioiosamente, come figli, non come schiavi’”.

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