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Emanuele e Berardo, dal convegno a Roma: “La liturgia non vive di slogan”

Liturgia

Nella liturgia si corre il rischio di “accontentarsi di formule che non dicono nulla all‘anima”, mentre “le società si muovono, corrono, vivono”. Lo ha detto padre Paul Gilbert, docente di metafisica alla Pontificia Università Gregoriana, aprendo ieri mattina i lavori del congresso su “Liturgia ed evangelizzazione”, in corso nell‘ateneo dei gesuiti per iniziativa di quest‘ultimo e della Conferenza episcopale italiana.
Soffermandosi su due categorie che hanno a che fare con lo spazio e il tempo liturgico, il filosofo ha spiegato la differenza tra il “sacro” e il “santo”. “Ciò che è sacro – ha detto – viene separato dal fluire della vita quotidiana: il sacro è l‘altro del profano, il santo vive nelle turbolenze del mondo.
Il sacro conserva una tradizione che solidifica, e che invece il santo rettifica, rende vivente. Il sacro pone un limite al profano, impone una distanza, una proibizione; il santo, invece, vuole scendere nel cuore delle persone, animare le loro tensioni etiche, di coscienza”. “Senza la santità, la liturgia diventa insignificante”, ha ammonito il relatore. Nello stesso tempo, “il santo non basta a sé stesso, ha bisogno di un culto”.

“La liturgia non vive di slogan”. A puntualizzarlo il filosofo Paul Gilbert, rispondendo alle domande dell’assemblea durante il congresso.
A cinquant’anni dalla prima messa in italiano, celebrata da Paolo VI nella parrocchia romana di Ognissanti – la domanda – con quali cambiamenti antropologici, sociali, culturali dobbiamo rapportarci? “Bisogna frenare le onde che partono dai tweet”, la risposta del professore di metafisica, che ha citato la sua esperienza in aula: “In tutte le università europee – ha detto – gli studenti che arrivano non hanno più il vocabolario di prima, non sanno più ragionare, mettono le frasi una dopo l’altra, non sanno legarle”. Di qui la necessità d’interrogarsi su “come fare con lo scivolamento della qualità della cultura”, per cercare di colmare “questo distacco culturale tremendo”.

“Abbiamo dimenticato il rito, dimenticando il corpo”. A lanciare il grido d’allarme è stato padre Giorgio Bonaccorso, dell’Istituto Santa Giustina di Padova.
“Il rito è corpo, è un’autogestione del corpo, utilizzato dalle società per rispondere al problema della morte”, ha spiegato il relatore. “La nostra specie – ha proseguito – è l’unica che ha una memoria estesa, che va fino ai confini della vita: siamo nella drammatica situazione di sapere che nasciamo e moriamo”. “Come possiamo continuare a vivere sapendo che dobbiamo morire?”. Il rito è “un dispositivo” che ci aiuta a vivere questo percorso, tramite un’“inversione”: dalla morte alla vita. In questa prospettiva, “il rito non è contro il profano, è per dare speranza al profano”, grazie alla sua capacità di “tenere insieme il fatto di vivere e di morire”. Altra categoria essenziale per descrivere la liturgia è il modello dell’“immersione”: “L’esperienza sensibile – ha spiegato il liturgista – nel rito diventa luogo di presenza: se non c’è un’esperienza sensibile, la dottrina è vuota, la morale è vuota. Non entro nel rito per diventare buono”.

“La bellezza – in ogni sua autentica espressione – dà ali alla ragione e la conduce sul confine fra il tempo e l’eterno, l’affermazione e la domanda, l’ombra e la luce, la terra e il cielo”.
Lo ha detto il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, nell’omelia della Messa che ha concluso la seconda giornata del Congresso.
“La ragione, fiera delle sue conquiste e consapevole del suo continuo cercare, tuttavia sembra insoddisfatta – l’analisi del cardinale – intuendo che solamente un orizzonte ulteriore è il suo compimento”. Così, la “bellezza che il mondo contemporaneo desidera, la comunione delle diversità, la sintesi del molteplice”, può essere trovata nella liturgia. “La bellezza – ha spiegato il presidente della Cei – è armonia e cifra, è una punta rovente e avanzata dell’umano che porta, in modi plurimi, sulla soglia di un ‘oltre’ che misteriosamente affascina, poiché la creatura – impastata di limite – sente che l’infinito è la sua vera casa e il suo destino”. Se la liturgia “pare astratta”, ha ammonito il cardinale, “è perché noi la teniamo fuori dal cuore e dalla vita, mentre essa chiede di entrarvi”. “Essere continuamente evangelizzati” per poi, “rigenerati, tornare alla vita quotidiana”: è questo, per il cardinale Bagnasco, ciò “di cui abbiamo bisogno noi credenti”.

“Come la liturgia può avvicinarsi a chi non ha il dono della fede e non frequenta i santi riti?”.
Per il cardinale Bagnasco, è questa una delle domande da porsi, poiché “l’esperienza pastorale testimonia che le occasioni di incontro della liturgia con la gente di ogni dove non sono poche né poche significative”.
“Gli stessi mezzi di comunicazione – ha detto il presidente della Cei nell’omelia della Messa celebrata stasera al Congresso su “Liturgia e evangelizzazione” – rendono accessibile il pluriforme linguaggio liturgico, e questa è una grande opportunità che accresce la nostra responsabilità perché nulla – nella fedeltà alla Chiesa – diventi mondano, e quindi lontano dal cuore del mondo che guarda forse senza la fede, ma con interesse o curiosità. Dio ha le sue strade!”. A proposito dell’omelia, il cardinale ha ricordato che “il protagonista vero della liturgia è Cristo, non siamo noi”: per questo, contano “non tanto le nostre parole, gesti, riti, ma la capacità dei santi segni di attirare l’attenzione sul volto dell’Invisibile”.
“Non sono il numero delle parole né la moltiplicazione dei gesti – ha ammonito il porporato – ma la nostra fede, la nostra preghiera, la nobile sobrietà, l’intelligenza artistica ispirata, che rendono l’ambiente e la celebrazione non scialbi e banali, ma belli ed eloquenti per la sensibilità di tutti”.