ParmaDi M. C. Scaffardi

Cala il sipario sulla scena. Il teatro è mezzo vuoto e saluta con una certa freddezza il concludersi della commedia, ritenuta molto stereotipata. La “prima donna” ,da sempre applaudita e ricercata, si allontana sconsolata nel camerino. Il suo nome non attira più. Si guarda allo specchio, ma si ritrae subito, non riconoscendosi nell’immagine riflessa. Che le rimanda un volto spento, sciupato, imbruttito non dallo scorrere del tempo naturale, ma dai tanti lifting cui si era sottoposta per apparire sempre in forma, tirata e luccicante. Al top, secondo quei canoni richiesti dal suo ruolo. Gli occhi velati si fermano sullo specchio, che appare offuscato. È un risveglio da un incubo: era una immagine deformata, non reale. Esce contenta, con gli abiti da scena ancora addosso, guadagnandosi solo sguardi di commiserazione.
Metafora, questa, di una città emiliana, Parma, capitale del ducato di Parma e Piacenza, che – per la naturale collocazione geografica, per l’industriosità e la tenacia dei suoi abitanti – ha avuto un ruolo significativo nell’economia e nella crescita del nostro Paese. Terra di santi, alcuni canonizzati, altri riconosciuti come tali dalla gente; città d’arte, che ha impresso nelle pietre e nelle diverse forme artistiche la grandezza del suo animo; città dai tanti prodotti “doc”: dal famoso parmigiano al prosciutto… Patria naturale di diverse aziende che hanno esportato, insieme ai loro manufatti, anche il buon nome di Parma. Città universitaria che ha attratto e continua ad attrarre studenti da varie parti dell’Italia e dall’estero. Di dimensioni relativamente piccole, considerate anche questo un elemento positivo, proprio per la sua vocazione “alimentare” è diventata sede dell’Efsa… Tanti motivi che hanno reso Parma una città famosa e desiderabile per abitarla. Anche se, per contro, chi si trasferisce qui da altre città ha sempre lamentato una certa forma di asfissia che il carattere provinciale e di vecchio ducato faceva respirare.
Poi qualcosa è incominciato a scricchiolare. Andando a ritroso nel tempo, un primo brutto risveglio – in questa “ascesa” – con il crac della Parmalat, nel disastro finanziario che ha visto come complice uno dei pilastri dell’industria alimentare (ma non solo)… Risveglio amaro, sia per le conseguenze, che per il senso di sfiducia e di tradimento che è nato nella gente. Il nome di Parma si associa così non più ad azioni e a risultati brillanti, ma a frodi, a processi, a persone che ci hanno rimesso anche la vita. Ma la città, dopo uno shock iniziale, si riprende. Senza preoccuparsi di vigilare su se stessa e su quanto, forse in modo ingenuo faceva crescere al proprio interno. Seguendo mete sempre più ambiziose. Se Parma è stata capitale nell’800, perché non può esserla anche nel terzo millennio? La città diventa un grande “cantiere”, tra ponti elevati e progetti rimasti incompiuti o non realizzati, come quello della metropolitana. Eppure si va avanti, proponendosi obiettivi non più raggiungibili con le proprie forze e inadeguati alle stesse esigenze della popolazione. Una corsa ad apparire: città vetrina che, tra slogan e cartellonistica, lascia trasparire dei vuoti, come se dietro all’etichetta non ci si preoccupasse più se la sostanza viene un po’ contraffatta. Arriviamo così alla fase delle inchieste che, a macchia d’olio, coinvolgono dalle partecipate del Comune fino ad entrare nel Palazzo comunale, con l’arresto nel 2013 del sindaco Vignali. La petite capitale è diventata vittima di se stessa e della sua mania di grandezza e si trova a dover leccare le proprie ferite sanguinanti. Insieme ai debiti che la giunta Vignali ha lasciato, tra l’organizzazione di una movida e l’altra nelle vie principali della città.
Dunque, è crisi. Crisi che sfilaccia il tessuto della città e pone domande. Forse anche quelle non ascoltate, come i segnali di preoccupazione che emergevano, rilanciati più volte alla città anche dal vescovo, in occasione del patrono. Situazione gravata poi dalla crisi economica che, in tempi sia pur più lenti, ha morso e sta mordendo anche il nostro territorio, con perdite di posti di lavoro e chiusure di aziende pure nei settori che hanno sempre “tenuto”. Parma non è più l’isola felice in cui ci si era illusi di vivere. E se prima sembrava bearsi e compiacersi troppo del suo passato glorioso, ora ci troviamo in una continua e affannosa ricerca del nuovo, come se tutto cominciasse ora. Senza quell’umiltà, che ci pone da una parte nell’accoglienza del buono che ci è stato tramandato, e dall’altra nell’ascolto vero della gente per individuare priorità. Fase adolescenziale di una città – così l’ha definita il vescovo Solmi nel messaggio di sant’Ilario lo scorso anno – che deve essere superata per diventare adulta, assumendosi ciascuno la propria responsabilità. Smettendo di giocare allo scaricabarile o di nascondersi dietro la velina dell’emergenza. Oggi ci siamo noi, cittadini e istituzioni, soggetti del terzo settore, comunità: dobbiamo decidere da che parte andare e quale città vogliamo costruire. Con scelte coerenti a livello politico. Per non perdere, insieme ai tanti pezzi, anche la faccia.

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