Incontro liturgia Padre Luis

DIOCESI – Lunedì 23 febbraio si è tenuto presso il Biancazzurro di San Benedetto del Tronto il primo incontro del corso per i  ministri della comunione.

L’appuntamento ha avuto come relatore don Patrizio Spina e il tema è stato sul “fondamento biblico”.

Riportiamo di seguito l’intervento di Don Patrizio Spina: “Carissimi,
quando un po’ di tempo fa don Luis mi ha riproposto di tenere un incontro a tematica biblica per tutti coloro che nella nostra chiesa diocesana si apprestano a svolgere un servizio alla mensa eucaristica, gli ho detto “stupidamente” si, come d’altra parte mi capita di dire spesso.

Poi me ne pento: mi imbarazza mettere a nudo le mie inadeguatezze e mi “affatica” mettermi in ricerca.
Ma don Luis è mio amico, ci conosciamo da tanti anni, quando sono arrivato in diocesi mi è venuto incontro e senza chiedermi nulla mi si è fatto “prossimo”. Glielo devo… ma spero termini qui.
Come ho proceduto?
Ho pensato al ministero per la comunione o dell’Eucarestia e mi sono chiesto “ tu sai l’etimologia della parola ministro?”
Ministro è colui che serve, dal latino minister che significa aiutante, deriva da minus minore con il suffisso ter che indica una comparazione tra due.
E’ l’aiutante più piccolo che puoi scegliere, il più piccolo davvero.
È curioso che “ministro” abbia un contrario etimologico, che è “maestro”: specularmente, questa parola deriva da [magister], composto di [magis] maggiore e dal suffisso [-ter]. Se il ministro è il minore, il maestro è il maggiore.

Ho capito, ci risiamo : ancora una volta si sceglie il più piccolo, quello che deve imparare e non quello che deve insegnare. Di Maestro ne basta uno: quello che ha insegnato mettendosi non il camice dell’esperto, ma il grembiule del servo che si china a lavare i piedi.
E’ il Giovedi Santo. Quando nasce l’Eucarestia che Giovanni spiega , a differenza dei Sinottici , come un servizio da inferiori.
E’ il servizio kenotico che puoi fare solo se riesci a svuotarti del tuo IO e riempirti di DIO … non ci si abbassa a terra per sport o per hobby. Ci si abbassa a terra per incrociare lo sguardo di chi é a terra e lì rimane senza la forza di alzarsi, come la donna di Giovanni 8.
Mi ha sempre affascinato l’idea che, al di là di tutto, per rincuorare quella povera donna Gesù non le abbia detto nulla: si è solo abbassato al suo livello, al livello del suo sguardo.
Lui è il Messia, colui che ci ha chiesto quel giovedi santo “ Avete capito cosa io ho fatto? Lo avete capito veramente?
Io sono il Messia e ho fatto questo: tu cosa vuoi fare?”

Il servizio si applica in pienezza nel ministero del Messia = Mashiah(חמשי) : Gesù è il vero e unico servo. Ho ripreso in mano i 4 “Canti del Servo” di Isaia (42,1-9/49,1-7/50,4-12/52,13-15; 53),
Il primo canto del servo di Jahvè (Isaia 42)

Nel primo canto ci ritroviamo con le parole che poi verranno utilizzate per il Battesimo di Gesù: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio, ho posto il mio Spirito su di lui, egli porterà il diritto alle nazioni”.
Fin dall’inizio questo servizio della salvezza affidato al servo si presenta come una missione difficile. Dio dice del suo servo: “Egli non griderà, né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta; proclamerà il diritto con verità, non verrà meno e non si abbatterà finché non avrà stabilito il diritto sulla terra, la giustizia di Dio”.

Già si allude a una missione che porterà il servo inevitabilmente ad entrare dentro una realtà di male e di violenza, con le canne incrinate, gli stoppini che vengono spenti, dove servirà essere forti, non venir meno. Dovrà combattere il male rinunciando alle armi del male, usando armi diverse, che sono apparentemente armi deboli: dovrà entrare in una dimensione dell’amore e della mitezza.

Questo però inevitabilmente crea una sproporzione assoluta perché la violenza è forza, è potere, ha armi violenti, pesanti e potenti e il servo dovrà invece combattere e vincere utilizzando i criteri della bontà, del rispetto, criteri che vengono dal desiderio non di distruggere, ma di salvare.

È molto significativo questo fatto: non deve spezzare la canna incrinata, non deve spegnere lo stoppino dalla fiamma smorta; i criteri del mondo sono diversi: “Se la canna è incrinata, ormai non serve, spezziamola; lo stoppino della candela ormai è smorto, spegniamolo”. Questo è il criterio del mondo.
I criteri di Dio, i criteri del servo e quindi i criteri nostri, invece, sono diversi: c’è lo stoppino che ormai si sta spegnendo? Cerchiamo di proteggerlo, cerchiamo di recuperare quel po’ di fiamma che ancora c’è; la canna è incrinata? Cerchiamo di raddrizzarla, facciamo in modo che non si spezzi del tutto.

È la volontà di salvare a tutti i costi, appigliandosi a quel poco di bene che c’è; il servo è colui che va a cercare quel po’ di bene che c’è ancora nella realtà per poterla guarire. E’ il servo che esce per chiamare quanti può incontrare per far entrare nella festa del Re.
Il servo è quello che non dice mai: “Basta non c’è più niente da fare, spezziamo la canna”; il servo di Dio non ha mai l’atteggiamento rinunciatario, non dice mai “ormai è inutile”.
Il servo di Dio al contrario va in cerca di quel poco di bene, di quel poco di vita, di quel poco che c’è per poter da lì fare salvezza, perché questa è la politica di Dio.

Nell’originale ebraico si dice che “non spezzerà la canna incrinata, non spegnerà lo stoppino” e ancora “e lui non si incrinerà, non si spezzerà come la canna e non sarà debole, fumigante”.
Quello che viene tradotto in “non verrà meno e non si abbatterà”, in realtà nel testo originale è detto con gli stessi verbi che vengono usati per la canna incrinata e per lo stoppino fumigante; il servo non si incrina, il servo non diventa fumigante pure lui, rispetta la realtà malata allo scopo di guarirla e senza farsene contagiare, con la forza che viene proprio dal fatto di poter affrontare il male con delle armi diverse sapendo che, pur nell’apparente debolezza, quelle armi sono più forti del male.

Questa assunzione della realtà malata senza paura di ammalarsi è tipica del servo ed è una manifestazione di forza nell’apparente debolezza. Solo chi è molto forte può avere la pazienza di aspettare, può confrontarsi con il male senza averne paura, può essere paziente, come Dio. Questa è la missione del servo.

Nel secondo canto (Isaia 49) poi questa missione del servo si specifica meglio nella linea di una percezione di stare a fare qualche cosa di inutile.

Dice il secondo canto: “Ascoltatemi isole, udite attentamente, il Signore mi ha chiamato dal seno materno, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome”; dunque vedete il servo consapevole della propria chiamata: “Il Signore mi ha detto: Mio servo sei tu”; poi però il servo parla della sua esperienza: “E io ho risposto: invano ho faticato, per nulla e vanamente ho consumato le mie forze, però certo il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa è presso il mio Dio”.
Il servo per tre volte dice con tre avverbi diversi che quello che sta facendo sembra inutile: INVANO, PER NULLA, VANAMENTE.
Questa idea di vuoto, di inutilità, di inconsistenza, di girare a vuoto o vanamente, come se la missione, nel momento in cui il servo la esplicita, gli desse l’impressione di non servire a niente, fa parte dell’essere servi.
La percezione è che quello che facciamo non sia utile, appunto, non serva perché sembra che noi portiamo avanti discorsi, criteri, logiche, strategie che non sono quelle del mondo, che pare non sapere cosa farsene del nostro servizio.

Questa idea di inutilità viene anche dal fatto che c’è strutturalmente una inadeguatezza assolutamente tipica del servo nei confronti del suo servizio e nei confronti della sua missione, perché la missione è di Dio e noi siamo inadeguati.

Celebro quest’anno 25 anni di ministero, di servizio… mi rendo conto che sono anni che mi sono serviti a capire quanto sono inadeguato? Dio avrebbe fatto bene a chiamare altri, più idonei di me…

Il vescovo avrebbe fatto bene a mettere altri al mio posto, più in gamba di me …
Il parroco avrebbe fatto bene a mettere altri al mio posto, più bravi di me …
Allora, sono certo della mia inadeguatezza o lo dico solo per dire? E tu?

I criteri a cui bisogna obbedire sono quelli di Dio, allora noi ci ritroviamo a muoverci su un piano diverso da quello in cui si muovono di solito gli altri, per cui abbiamo l’impressione di ritrovarci sempre a mani vuote perché i risultati del nostro
servizio non sono mai verificabili

Infatti non si muovono sul piano del successo o del conteggio dei numeri, di quelli che siamo riusciti a convertire; non sono quelli i criteri, perché tutto si svolge dentro le coscienze e quindi nulla è verificabile della positività del nostro lavoro e del nostro servizio: solo Dio lo può verificare e dunque giustamente dice il servo “solo in Lui è la nostra ricompensa”.

Quello che avviene in risposta al servizio del Regno, al servizio della salvezza, al servizio del bene non è quantificabile, non è verificabile: si deve lavorare sapendo che c’è chi semina e poi è un altro che raccoglie; se noi seminiamo poi non raccogliamo e non sappiamo dove è caduto il nostro seme, se nella terra buona, se in mezzo alle pietre, se in mezzo alle spine. Noi dobbiamo seminare, il resto lo sa il Signore: dobbiamo lavorare affidandoci a LUI che sa.
Noi restiamo sempre a mani vuote, senza poter dire mai “guarda, questo l’ho fatto io” No… mai!
Perché appena noi lo diciamo, quella missione non è più la missione di Dio, è la nostra!
E gli uomini delle nostre missioni non sanno proprio che farsene.
Riconoscere che la missione è del Signore vuol dire essere servi: in questa esperienza di spossesso radicale, di essere servo di qualcosa che non è mio, noi possiamo allora davvero dare tutto fino alla fine perché abbiamo la certezza che la ricompensa è nel Signore.

Una missione che segue questi criteri, che non risponde al male con il male, che accetta di seminare senza sapere, che accetta di andare per strade secondo criteri che sono diversi da quelli del mondo, andrà incontro inevitabilmente a delle incomprensioni.
E’ il deserto di cui si parlava nella prima domenica di quaresima, secondo la redazione di Marco.
Ed ecco allora il terzo canto (Isaia 50) dove compare la dimensione del rifiuto violento.
“Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro, ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mia guance a coloro che mi strappavano la barba, non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”.
Il rifiuto prende la dimensione della violenza e della umiliazione: la barba strappata non è solo un gesto di violenza, con cui si infligge sofferenza all’altro, ma è un modo con cui lo si umilia perché la barba era segno di dignità per il mondo antico e per il mondo semitico. E poi gli sputi in faccia sono un gesto di disprezzo e di umiliazione ben comprensibile ormai per tutti.

Non è difficile qui riconoscere quello che avviene al Signore Gesù nella Passione, con il dorso flagellato, proprio come quello del servo, e con gli insulti e gli sputi dei soldati che lo prendono in giro e lo umiliano, cercando attraverso l’umiliazione di distruggere l’uomo: la violenza distrugge il corpo, l’umiliazione distrugge lo spirito, la coscienza di sé.
Quindi il tentativo è veramente quello di mettere radicalmente a tacere questo servo scomodo che porta avanti una missione che il mondo non può riconoscere.
Questa reazione violenta rivela, però, anche quanto è grande il bisogno degli uomini e del mondo di essere salvati, quanto è grande il bisogno di questa missione, di questo servizio, di questa salvezza.

La reazione violenta di rifiuto rivela che gli uomini, a cui il servo è mandato e a cui anche noi siamo mandati, sono ormai diventati talmente conniventi con il male che quando viene qualcuno a dire: “Ti vengo a liberare”, si reagisce dicendo: “Liberare da che? Io non ho bisogno di essere liberato” e se si tenta di spiegare con ”Ma tu sei in prigione, tu sei cieco” quasi offesi si risponde: “Io ci vedo e ci vedo bene”; e se ancora si prova ad insistere: “Ma io vengo a liberarti!” la risposta è di nuovo: “Ma io sono libero!”.
Quando si entra nel male, si arriva ad un tale livello di connivenza con il male che non lo si riesce a riconoscere più come male: non sai più distinguere ciò che è male e ciò che è bene e quindi sei nel male, sei in prigione, sei cieco; credi di vederci, credi di essere libero; il male lo chiami bene: questa è la vera malattia, il vero problema dell’uomo, per il quale anche noi oggi siamo mandati.

Si chiama bene ciò che è male; allora quando vai a dire: “Io vengo a portarti il bene e a levarti dal male” reagiscono negando il problema, eludendolo.
Vi ricordate quando calano dal tetto il paralitico a Gesù? (Marco 2,1-12) Gesù dice: “Ti son rimessi i tuoi peccati” e reagiscono, perché non hanno capito dov’è il problema della vera liberazione e allora dicono: “No, un momento che stai dicendo? Guarda che questo non cammina. Allora se vuoi far qualcosa fallo camminare”; e Gesù sembra rispondere: “No, il problema è da un’altra parte e allora, perché si capisca che il problema vero dell’uomo è di essere perdonato,
quindi liberato dal male, perché si sappia che io possa perdonare i peccati, allora adesso dico: alzati e cammina, ma la guarigione è un’altra”.

Noi siamo davanti ad un mondo che scambia IL MALE con IL BENE e quindi rifiuta radicalmente ogni nostro tentativo di aiuto (sia nostro che di Dio, chiaramente,attraverso di noi); oppure chiede altro, chiede gambe che camminino, chiede pane…e va bene, è giusto chiederlo, ma solo se si capisce che rispondere a questo vuol dire portare, oltre alle gambe e al pane, qualcosa di cui quel pane è segno, cioè la possibilità di condividerlo con i fratelli, la possibilità di aprirsi all’amore, la possibilità di lasciarsi salvare, la possibilità di aprirsi alla fratellanza, la possibilità di aprirsi alla comunione: questa è la vera guarigione.

Parafrasando un detto, se il pane lo mangi da solo, ti strozzi; il pane ti nutre quando è pane che ricevi e condividi.
Questo è un messaggio difficile da capire ecco perchè il mondo reagisce, con i flagelli e gli sputi e, come se non bastasse, il servo viene condannato a morte.

Il quarto canto(Isaia 52-53) è chiaramente il canto del servo sofferente, ma è evidentemente il canto della Passione di Gesù .
Si parla di un servo dall’aspetto sfigurato tanto era grande il suo dolore e che però, proprio in questa sofferenza e in questa umiliazione, trova la sua glorificazione: vedete il mistero di Pasqua che già comincia.
“Ecco il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato, innalzato grandemente”. Al tempo stesso, dice: “tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto”; dunque dove si rivela massimamente l’umiliazione e il dolore, proprio lì si rivela la gloria di Dio e la glorificazione del servo, che per arrivare alla luce deve attraversare il buio della morte: “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”.

Vedete non solo il dolore, ma la sofferenza indicibile della solitudine: davanti al servo si coprono la faccia, è un gesto apotropaico per non lasciarsi contagiare da quel dolore, ma è anche il gesto della chiusura radicale, che mette il diaframma, che dice: “Io con te non voglio avere nulla a che fare”.

Il servo, nell’esercizio della sua missione, deve accettare di essere solo e di avere solo Dio al suo fianco; “Ed era disprezzato – dice il testo -; non ne avevamo alcuna stima eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Il castigo che ci da salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca, era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca”.

Il compimento evidente di tutto questo è nel Signore Gesù, che si carica non delle nostre colpe, ma delle conseguenze delle nostre colpe, rispondendo al male con il bene, così da distruggere il male e ridare innocenza anche ai peccatori.
Eppure questa realtà non appare, quello che sembra è che questo servo sia castigato da Dio: è quello che avviene nella vicenda di Gesù. “Si è detto figlio di Dio? E se è figlio di Dio, che scenda dalla croce! Non scende, quindi è evidente che non è figlio di Dio! E’ invece giustamente condannato”, fino ad arrivare a quello che dice San Paolo, nella lettera ai Galati: “Si è fatto maledizione per noi, perché è maledetto chiunque pende dal legno” maledetto!
Sembra un uomo maledetto o, come dice il canto: “castigato, percosso da Dio e umiliato”.

L’amore del servo è talmente grande e il dono di sé è talmente gratuito da non pretendere neppure di essere riconosciuto: il servo, che è poi il Signore Gesù, dà la vita per noi e non pretende neppure che questo si veda, che questo ci costringa in qualche modo ad una gratitudine che poi sarebbe persino insopportabile; il dono è talmente gratuito che Lui muore e non chiede neppure che venga riconosciuto che sta morendo per noi.
Bisogna poi che il dono venga accettato per ciò che è e che quindi si accolga il dono di un servo che sta dando la vita per noi con una tale delicatezza, con un tale rispetto, con una tale gratuità che non muore dicendo: “Guardate che sto morendo per voi!”. No, Lui sta morendo per noi nella libertà, senza che questa morte sia per noi un peso, anzi ce ne libera, ci fa totalmente liberi.
E il servo muore, dice il canto, senza aprire bocca, in silenzio-
Vi ricordate quanto i Vangeli insistono sul fatto che durante il processo Gesù non parla? “E Gesù non apriva la bocca”, proprio così, come agnello muto, non apriva la bocca.
E gli dicono:“Ma non senti quello che stanno dicendo? Non senti ciò di cui ti accusano? Che dici?” E Lui zitto.
Lui parla solo quando c’è in gioco la verità della sua missione e la verità del Padre, ma quando si tratta di rispondere alle accuse, allora Gesù tace. Perché l’unico modo che aveva per rispondere alle accuse era dimostrare che erano false.
Ma questo avrebbe significato puntare il dito verso i falsi testimoni.
Allora la legge prevedeva che i falsi testimoni dovessero essere condannati alla pena che con la loro falsa testimonianza avevano provocato:ora loro stanno provocando una condanna a morte, quindi se Gesù avesse risposto dimostrando che erano falsi accusatori, sarebbero stati condannati a morte… ecco perché l’agnello rimane muto.
Gesù accetta di morire, di dare la vita per salvare loro che altrimenti sarebbero stati condannati a morte.. .per salvare noi che altrimenti saremmo condannati a morte!

Perché quello che avviene nel processo di Gesù non è qualcosa che è avvenuto lì e basta: quello era il Figlio di Dio, quello che è avvenuto lì vale per tutti e dunque c’eravamo anche noi ad accusarlo falsamente; e saremmo stati anche noi, se Gesù avesse risposto, i condannati a morte.
Gesù accetta di morire perché gli uomini possano, invece, vivere; è così che il servo porta a compimento la sua missione, portando l’amore fino alla fine, pronto a morire trasformando il morire in dare la vita , consentendo così a tutti i falsi accusatori, a tutti i peccatori, a tutti noi di ricevere la vita e di essere definitivamente salvati dalla morte.

Questo è il cammino del servo, il cammino del Signore Gesù, il cammino che viene chiesto anche a noi se vogliamo essere servi, chiamati da Dio al suo servizio.
Siamo dunque chiamati a combattere il male con armi diverse dal male, a rispondere al male con il bene anche se questo sembra tanto più debole, anche se questo viene rifiutato, anche se questo apparentemente ci condanna a morte; chiamati a vivere il nostro servizio in totale inadeguatezza e in totale gratuità con le mani vuote, con le mani aperte, senza pretendere di vedere risultati perché quelli sono lasciati a Dio solo; chiamati a fronteggiare il rifiuto degli uomini, nella certezza che rispondere con l’amore vince anche il rifiuto e la violenza; siamo chiamati a intercedere come il servo, perché IL SERVO ha interceduto per tutti, chiamati a intercedere per chi ci sta rifiutando; chiamati in definitiva a dare la vita in totale gratuità, senza aspettarci nulla in cambio, pronti persino a donarla in quel modo delicato, gratuito, silenzioso, che è stato di LUI, e senza neppure pretendere che questo dono sia riconosciuto.

Considerando quindi i 4 “Canti del Servo” di Isaia (42,1-9/49,1-7/50,4-12/52,13-15; 53), notiamo che il servo é:
– l’eletto, il chiamato (l’agapetòs, il diàconos). Quindi la diaconia è una chiamata (è un rapporto di comunione con Dio che chiama), ma anche con la Chiesa (il ministro è ministro di comunione, non una scheggia impazzita);
– è chiamato fin dal seno materno (per nome): Dio ci conosce da sempre e questo ci dà fiducia;
– è consacrato (santificato) dallo Spirito (in permanenza e non solo per il tempo della missione);
– è consacrato per una missione profetica di annuncio del diritto, della parola di Dio, che è l’amore.

La missione quindi è anche quella di curvarsi sull’uomo per restituirlo alla sua dignità umana integrale (promozione umana): non va a fare qualcosa, un po’ di elemosina, ma a salvare l’uomo, anima e corpo. Ha la missione di ricostituire l’Alleanza (= mettere in contatto con Dio) all’interno del popolo, ma che si estende però a tutte le nazioni.
Come compie la missione il servo?
– in umiltà, dolcezza, mansuetudine (agnello sacrificato, muto, che ha dato tutto se stesso, senza sdolcinature). Dio si fa uomo, uno di noi, come il pastore che diventa agnello …( Gv 10,1-21 il buon pastore dà la vita … )
– il servo è forte dell’appoggio di Dio non per se stesso, ma è reso forte; ascolta per primo la parola che porta, altrimenti è un cembalo sonoro;
– il servo obbediente è un servo sofferente, ma la sua sofferenza è espiativa: si è caricato delle sofferenze degli altri. La missione ci porta a mettere a disposizione la nostra vita;
– Dio manifesta in lui la sua gloria; l’umanità sofferente di Cristo diventa il luogo della manifestazione della gloria di Dio: è il trono della gloria di Dio. Nel sofferente brilla la gloria di Dio. ( la croce dell’Agnello come trono della gloria di Dio )

Poi siccome avevo ancora un po’ di tempo sono andato a vedermi il significato della parola servo, in ebraico ‘ebed עֶבֶד
Nell’uso civile del termine ‘ebed c’è da notare che non indica necessariamente una persona collocata in una posizione sociale di basso rango. Il termine di per sé denota una relazione di subordinazione a un’altra persona, dunque un termine relativo per quanto riguarda la collocazione sociale dell’individuo per il quale viene usato. Per esempio, un alto ufficiale della corte del re (che ha una posizione sociale alta) può essere chiamato ‘ebed, perchè si trova agli ordini del re. Ugualmente uno schiavo (con posizione sociale bassa) può essere chiamato ‘ebed.
L’uso religioso del termine fuori del Deutero-Isaia (“servo di Dio”, oppure “il mio servo” ecc. in rapporto a YHWH) è assai comune e viene applicato a molti individui (Mose, Davide, Elia, ecc.), anche genericamente (la voce dell’orante in molti salmi), e qualche volta, soprattutto in testi della storiografia deuteronomistica (Dtr), viene applicato collettivamente ai profeti (“i miei servi i profeti”).
Abbiamo poi visto che ci è “naturale” leggere i canti del Servo del Signore come riferimento a Gesù.
Meno noto forse è il fatto che l’applicazione a Gesù non è l’unica nel NT. Il simbolo “servo di YHWH” viene applicato anche ai predicatori della buona novella, cioè a un gruppo. Il testo più chiaro in questo senso è probabilmente At 13,47. In questo testo Paolo e Barnaba dichiarano con franchezza ai Giudei di Antiochia di Pisidia che il loro rifiuto di accogliere la parola di Dio ha come conseguenza l’apertura del messaggio ai pagani: “…ecco noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: ‘Io ti ho posto come luce per le genti, perchè tu porti la salvezza sino all’estremita della terra'”. La citazione è dal secondo canto del servo, Is 49,6, e Paolo e Barnaba applicano a se stessi (“così ci ha ordinato il Signore”) il compito dato da YHWH al servo di Is 49 (“ti ho posto come luce per le genti…”).
Nella stessa opera lucana Gesù è stato descritto in Lc 2,32 come “luce per illuminare le genti”; mentre in At 13 sono Paolo e Barnaba (e per estensione, tutti i predicatori della buona novella) che hanno questo compito, che fa parte del simbolo “servo di YHWH”. In altre parole, anche nel NT abbiamo un’applicazione individuale e un’applicazione collettiva del simbolo “servo di YHWH”

Ebed poi nel NT, anche alla luce della rivelazione, è tradotto (perché lo è realmente) con la parola “pais” cioè “figlio”; ma troviamo anche altre espressioni: “doulos” = schiavo/servo; “leiturgòs” = che presta culto a Dio, lo loda; “diakonos” = serve Dio nell’uomo: se dici di amare Dio e non ami l’uomo sei un bugiardo.
+ Il “pais” ha in comune con il “doulos” l’obbedienza, ma, mentre quella di quest’ultimo è condizionata dal timore nei confronti del padrone, quella del “figlio” è dettata dalla condivisione del progetto con il padre che lo ha mandato per compierlo. Sono e sei chiamato al servizio perché condividi, sei vicino, sei prossimo, sei accanto …

Ho capito quindi che quanto ho scritto per voi, in fondo, l’ho scritto per me e di questo vi ringrazio.
Sono stato costretto teneramente a fare memoria dei miei primi passi nel servizio, di quando mi chiedevano il perché e perché non potevo farlo diversamente, in un altro modo e in un altro ambiente.

Vorrei che anche tu – e te lo auguro di cuore – possa tornare a fare memoria di quando sei stato chiamato a vivere questo servizio, a donarti in questo servizio …

Se lo fai, se lo faremo, potremo dire solo e soltanto “ Grazie Signore, tu sai tutto di me e sai che ti voglio bene. Come Pietro ancora una volta grazie Signore, ancora e per sempre a Tuo servizio”.

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