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Don Ulderico Ceroni: “Segni della Quaresima” il deserto!

Don UldericoDi Don Ulderico Ceroni

DIOCESI – Il simbolo che vogliamo far emergere in questo tempo di Quaresima è quello del deserto come lotta anti-idolatrica, consolidamento vocazionale e recupero dell’interiorità. «L’esperienza del deserto è stata per me dominante.

Tra cielo e sabbia, fra il Tutto e il Nulla, la domanda diventa bruciante. Come il roveto ardente, essa brucia e non si consuma. Brucia per se stessa, nel vuoto. L’esperienza del deserto è anche l’ascolto, l’estremo ascolto».
Forse è questo legame con l’ascolto che fa sì che nella Bibbia il deserto, presenza sempre colma di significato spirituale, sia così importante. Certo, esso è anzitutto un luogo, e un luogo che nell’ebraico biblico ha diversi nomi: cârâvāh, luogo arido e incolto, che designa la zona che si estende dal Mar Morto fino al golfo di Aqâbā; chôrbāh, designazione più psicologica che geografica che indica il luogo desolato, devastato, abitato da rovine dimenticate; jêshîmōn, luogo selvaggio e di solitudine, senza piste, senz’acqua; ma soprattutto mîdbār, luogo disabitato, landa inospitale abitata da animali selvaggi, dove non crescono se non arbusti, rovi e cardi. Il deserto biblico non è quasi mai il deserto di sabbia, ma è frutto dell’erosione del vento, dell’azione dell’acqua dovuta alle piogge rare ma violente, ed è caratterizzato da brusche escursioni termiche fra il giorno e la notte.
Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita, il deserto, questo luogo di morte, diviene nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l’iniziazione attraverso cui la massa di schiavi usciti dall’Egitto diviene il popolo di Dio, diviene in sostanza luogo di rinascita. 

TRA LA PRIMA E LA NUOVA CREAZIONE: IL MYSTERIUM SALUTIS.
La nascita del mondo come cosmo ordinato non avviene forse a partire dal caos informe del deserto degli inizi? La terra segnata da mancanza e negatività diviene il giardino apprestato per l’uomo nell’opera creazionale.
E la nuova creazione (kainh . kti,sij), l’era messianica, non sarà forse un far fiorire il deserto? «Si rallegreranno il deserto e la terra arida, esulterà e fiorirà la steppa, fiorirà come fiore di narciso».
Ma tra prima creazione e nuova creazione si stende l’opera di creatio continua, l’intervento salvifico di Dio nella storia. Ed è in quella storia che il deserto appare come luogo delle grandi rivelazioni di Dio: nel mîdbār (deserto), dice il Tâlmūd, Dio si fa sentire come mêdâbbēr (colui che parla). È nel deserto che Mosè vede il roveto ardente e riceve la rivelazione del Nome; è nel deserto che Dio dona la Legge al suo popolo, lo incontra e si lega a lui in alleanza; è nel deserto che colma di doni il suo popolo (la manna, le quaglie, l’acqua dallaroccia); è nel deserto che si fa presente a Elia nella «voce di un silenzio sottile»; è nel deserto che attirerà nuovamente a sé la sua sposa-Israele dopo il tradimento di quest’ultima per rinnovare l’alleanza nuziale …
Ecco dunque abbozzata, tra negatività e positività, la fondamentale bipolarità semantica del deserto nella Bibbia che riveste i tre grandi ambiti simbolici a cui il deserto stesso rinvia: lo spazio, il tempo, il cammino. Spazio ostile da attraversare per giungere alla terra promessa; tempo lungo ma a termine, con una fine, tempo intermedio di un’attesa, di una speranza; cammino faticoso, duro, tra un’uscita da un grembo di schiavitù e l’ingresso in una terra accogliente, “che stilla latte e miele”: ecco il deserto dell’esodo!
La spazialità arida, monotona, fatta silenzio, del deserto si riverbera nel paesaggio interiore del credente come prova, come tentazione.
Valeva la pena l’esodo? Non era meglio rimanere in Egitto?
Che salvezza è mai quella in cui si patiscono la fame e la sete, in cui ogni giorno porta in dote agli umani la visione del medesimo orizzonte? Non è facile accettare che il deserto è parte integrante della salvezza! Nel deserto allora Israele tenta Dio, e il luogo desertico si mostra essere un terribile vaglio, un rivelatore di ciò che abita il cuore umano.
«Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore».

IL DESERTO È MAGISTERO DI LIBERTÀ E DI FEDE.
Il deserto è un’educazione alla conoscenza di sé, e forse il viaggio intrapreso dal padre dei credenti, Abramo, a risposta dell’invito di Dio “Va’ verso te stesso!”, coglie il senso spirituale del viaggio nel deserto. Il deserto è il luogo delle ribellioni a Dio, delle mormorazioni, delle contestazioni.
Anche Gesù vivrà il deserto come noviziato essenziale al suo ministero: il faccia a faccia con il potere dell’illusione satanica e con il fascino della tentazione svelerà in Gesù un cuore attaccato alla nuda Parola di Dio.
Fortificato dalla lotta nel deserto Gesù può intraprendere il suo ministero pubblico! Il deserto appare anche come tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, ma si attraversa il deserto! Quaranta anni, quaranta giorni: è il tempo del deserto per tutto Israele, ma anche per Mosè, per Elia, per Gesù. Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza.
E forse, l’immensità del tempo del deserto è già esperienza e pregustazione di eternità! Ma il deserto è anche cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito “disertare”, ma la tentazione è la regressione, la paura che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù egiziana al rischio dell’avventura della libertà. Una libertà che non è situata al termine del cammino, ma che si vive nel cammino. Ma per compiere questo cammino occorre essere leggeri, con pochi bagagli: il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spogliazione. Il deserto è magistero di fede: esso aguzza lo sguardo interiore e fa dell’uomo un vigilante, un uomo dall’occhio penetrante. L’uomo del deserto può così riconoscere la presenza di Dio e denunciare l’idolatria. Giovanni Battista, uomo del deserto per eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale: – egli è voce che grida chiedendo conversione, – è mano che indica il Messia, – è occhio che scruta e discerne il peccato, – è corpo scolpito dal deserto, – è esistenza che si fa cammino per il Signore.
Il suo cibo è parco, il suo abito lo dichiara profeta, egli stesso diminuisce di fronte a colui che viene dopo di lui: ha imparato fino in fondo l’economia di diminuzione del deserto. Ma ha vissuto anche il deserto come luogo d’incontro, d’amicizia, d’amore: egli è l’amico dello sposo che sta accanto allo sposo e gioisce quando ne sente la voce. Sì, è a questa ambivalenza che ci pone di fronte il deserto biblico e così esso diviene cifra dell’ambivalenza della vita umana, dell’esperienza quotidiana del credente, della stessa contraddittoria esperienza di Dio. «Dio non è nel deserto. È il deserto che è il mistero stesso di Dio».

IL DESERTO COME LOTTA ANTI-IDOLATRICA. Per Gesù il deserto si configura come uno spazio di lotta contro le dominanti del mondo: – il potere, che vuole affermarsi tramite la violenza;
– l’amore di sé (filauti,a), che degenera nel ripiegamento edonistico e narcisistico; – la logica antimessianica, che rimuove la via della croce per abbracciare quella del trionfalismo. Queste tre dominanti provano ancora oggi la comunità cristiana. Ma non sono le sole. Pensiamo alla logica dell’utilitarismo che giunge persino a strutturare i rapporti interpersonali in base al profitto o alla volontà di possedere (persone, cose) come valore ultimo da perseguire o al consumismo (idolo affascinante e prepotente) che propaga l’idea che la felicità equivalga alla sazietà. «La società dei consumi è divenuta il penitenziario del consumismo».
In questo orizzonte la cosa sacra oggigiorno è la merce o «la roba» della quale la pubblicità induce il bisogno. Di qui la necessità per il cristiano dell’ascesi, della vigilanza, e della lotta spirituale contro i falsi idoli per ritrovare se stesso, il prossimo e Dio nello spazio della comunione, e per fare della propria vita una via di bellezza (filokali,a).

IL DESERTO COME CONSOLIDAMENTO VOCAZIONALE. L’esperienza del deserto segue, per Gesù, la grande teofania del battesimo, dove, nell’ascolto della Parola del Padre, egli comprende pienamente la sua figliolanza divina e la sua missione. Il deserto diviene così il tempo dove Gesù consolida e approfondisce la sua identità e la sua chiamata. Gesù vivrà il deserto a faccia a faccia con la tentazione, ma altresì attaccato alla parola della Scrittura. Solo dopo essersi fortificato potrà intraprendere il suo ministero pubblico portando agli uomini il Vangelo di Dio. Se il cristiano non trova il coraggio di abitare il deserto non potrà mai udire la voce di Dio. È nel mîdbār (deserto), leggiamo nel Tâlmūd, che Dio si fa sentire come mêdābbēr (Colui che parla). Ritrovare il deserto, nella nostra vita concitata e frenetica, significa anche disporre spazi di silenzio interiore ed esteriore dove poter far rivivere la propria anima, saper comunicare nella gratuità e nella riconoscenza, e ritrovare la grazia delle piccole cose di ogni giorno, quelle feriali, di poco conto ma che hanno il potere di guarire la nostra mania di grandezza.

IL DESERTO COME RECUPERO O RISCOPERTA DELLA VITA INTERIORE.
Il deserto è pure un invito a riscoprire la propria interiorità. Mai come in questo nostro tempo è diventato difficile stare con se stessi. L’interiorità non è amata dagli uomini. «Per loro è un pungolo che esaspererebbe lo sforzo della loro vita. L’uniformità monotona dell’interiorità fa orrore agli uomini».
Un segno di disagio, che ben riflette la perdita dell’interiorità, è la mania di pubblicizzare il privato (Facebook). Manca quel pudore necessario che sappia custodire la soglia del mistero proprio e dell’altro. Se la Quaresima è un invito pressante di dare più tempo a Dio è perché ognuno in questo modo possa dare più tempo anche a se stesso, alla propria vita interiore, a quel nucleo profondo del sé che può qualificare come più umana e cristiana l’esistenza.