chipMaurizio Calipari

Tecnologia “indossabile”? Può essere utile… ma anche no. Ancora una volta, un piccolo gioiello d’ingegneria elettronica applicato all’uomo è occasione per una riflessione più ampia, anche sul piano antropologico.

Un microchip per l’ufficio moderno. Lo spunto viene da una notizia riportata dai media qualche giorno fa. Nel centro di Stoccolma, in Svezia, ha sede l’Epicenter, edificio di proprietà dell’azienda svedese omonima, che ospita al suo interno gli uffici di diverse società locali, operanti nel settore hi-tech. Ai circa 700 dipendenti che vi lavorano i vertici aziendali hanno proposto, su base volontaria, di farsi inserire sotto pelle (con una banale iniezione, un po’ più dolorosa del normale), tra indice e pollice della mano, un microchip delle dimensioni di un chicco di riso. Si tratta di un trasmettitore per l’identificazione a radiofrequenza, sviluppato dall’azienda BioNyfiken, che può essere sfruttato al posto del comune badge per varie funzioni come l’apertura delle porte, l’utilizzo dell’ascensore, della fotocopiatrice o per prendere bevande e snack nei distributori automatici. In definitiva, questo microchip può sbloccare ogni tipo di dispositivo, dal computer allo smartphone fino alla bici. Al momento la possibilità di farsi iniettare il microchip è limitata unicamente al complesso di uffici di Stoccolma, anche perché lo scopo di BioNyfiken pare sia quello di puntare più a un progetto di ricerca sul campo che a uno sfruttamento commerciale su larga scala, almeno per ora.

Più utilità, meno privacy. Che dire, dunque, di fronte a questo ingegnoso esempio di “tecnologia indossabile”? Sul piano dell’utilità, senz’altro il microchip sotto pelle supera in semplicità l’impiego di pin e password, promettendo di facilitare tutte le operazioni collegate a esso. Prevedibilmente, però, quest’iniziativa di modernizzazione ha fatto storcere il naso a tanti (dipendenti e non), dati gli evidenti rischi per la privacy personale connessi al suo innesto; il microchip, infatti, potrebbe essere in grado di monitorare spostamenti e attività di chi lo “trasporta”. A questi timori ha risposto, minimizzandoli, Hannes Sjoblad, di BioNyfiken: “Vogliamo essere in grado di comprendere questa tecnologia prima che le grandi aziende e i governi vengano da noi e ci dicano che tutti devono avere il microchip, quello dell’agenzia delle entrate, o di Google, o di Facebook. Poi saremo in grado di discutere del modo nel quale questa tecnologia verrà implementata in una posizione di maggiore conoscenza non solo lavorativa”.

La “distanza” tra uomo e macchina. Ma, forse, le perplessità più forti stanno su un piano ancora più profondo, a livello di significati antropologici. La tecnologia in genere è progettata e costruita dall’uomo come ausilio alle sue attività, è “il prolungamento del suo braccio”, l’amplificazione delle sue capacità operative. Essa, però, resta sempre uno “strumento” nelle sue mani, senza confusioni o commistioni. È bene perciò che rimanga intatta l’evidenza dell’incolmabile distanza (ontologica e valoriale) che esiste tra il soggetto umano e il suo “prodotto”. Non solo sul piano teoretico, quindi, ma anche a livello simbolico è saggio conservare e rappresentare questa abissale differenza, in ogni occasione applicativa. Solo in senso analogico e parziale, infatti, l’uomo “dialoga” con le macchine, in realtà le produce e controlla a senso unico (anche se le “istruisce” a dare risposte predeterminate). Il più sincero apprezzamento, dunque, per le facilitazioni operative che un microchip può realizzare, come per ogni nuova acquisizione del buon progresso tecno-scientifico. Ma posizionare un dispositivo sottopelle, quasi a mo’ di “protesi” integrata stabilmente nella propria corporeità, e per di più in grado (almeno potenzialmente) di tracciare e registrare i movimenti (e alcuni altri dati) dell’individuo, mettendoli così nella disponibilità di altri soggetti, ci sembra francamente “fuori misura” e, a livello simbolico, perfino “degradante”. No, quindi, a un’integrazione smodata uomo-macchina, neanche sul piano meramente simbolico. Va bene la “tecnologia indossabile”, ma… qualche volta il vestito è troppo stretto!

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