FedezDi Marco Testi

Quando si torna a parlare di contestazione più decisa, di risposta di piazza, come hanno fatto i 99 Posse, o si prende posizione per un’area politica scrivendone un contestato inno come Fedez per i Cinquestelle, si corre automaticamente il fascinoso rischio di fare confronti con il passato. Con l’altro periodo di crisi e instabilità: gli anni Settanta. Viene facile pensare a De Gregori e al suo “processo” da parte di militanti dell’estrema sinistra al Palalido di Milano, a Venditti, a Claudio Lolli, a Finardi, alla Pfm e agli Stormy Six di allora. E ripensando anche a quei tempi viene da chiedersi se cavalcare direttamente la tigre sia un dovere, un’eventualità, una predisposizione personale, una furbata, una strizzatina d’occhi alle tematiche trend. O se viene da sé, non solamente a seconda delle persone, ma anche in uno stesso artista in periodi diversi.
A quei tempi si faceva finta di non ascoltare Battisti, mentre a casa o con gli amici più fidati si passavano ore davanti allo stereo (mp3, Youtube, ipad non c’erano ancora), a girarsi e rigirarsi sul piatto “Umanamente uomo il sogno”, “Prigioniero del mondo”, “Per una lira”: tutti pezzi, come si vede, conosciuti solo dalla iniziatica setta dei battistofili, e con ragione, perché c’era di mezzo il mercato a tutti i costi delle canzoni cantabili e facilmente ricordabili. E invece in quelle canzoni il ragazzo di Poggio Bustone faceva capire che conosceva la solitudine, l’incapacità di capire il mondo e di camminare con lui, e soprattutto la contestazione di un modo di vivere inautentico. Solo che la leggenda della sua fede di destra gli costò la scomunica delle piazze.
Ma quelli che non avevano mai nascosto la loro fede di sinistra? Lolli, per dirne una, si riferiva direttamente ai problemi più scottanti nelle sue canzoni, attaccando frontalmente borghesia e tentativi di attenuare la carica rivoluzionaria (“La socialdemocrazia”) e rivolgendosi alla piazza. Anche allora c’erano coloro che prendevano di petto la situazione, con i dischi e con i concerti. E quelli accusati dalle frange più estreme di essere menefreghisti e di pensare solo ai soldi? De Gregori non sfuggiva alla realtà, solo che cantava gli aspetti interiori, senza contare che poi accenni alla realtà nei suoi dischi c’erano e come, dal Vietnam di “Saigon” alle trasformazioni del Msi (“Le storie di ieri”, che canterà anche De Andrè e dove c’era un verso, “I nuovi capi hanno facce serene e cravatte intonate alla camicia” che nella prima stesura citava direttamente Almirante) fino alla tragedia di Tenco (“Festival”). Venditti la prese, ma qui è questione di carattere, più di petto, affrontando temi scottanti come la Diossina in “Canzone per Seveso”, dai toni profetici (“e donne al davanzale/ lanciavano parole/ sepolte ormai nel ventre/ di madri perdute,/ perdute dal cielo/ proprio sopra di noi/ che restiamo a guardare/ morire le radici”. Venditti non ignorava la questione operaia e i suoi risvolti esistenziali, come accadde con “L’ingresso della fabbrica”. Ma anche quando si interessa alla vita degli operai sottopagati, riusciva a entrare in una dimensione intima e profonda, come nella splendida “Il treno delle sette” in cui una madre operaia guarda alla figlia con la speranza che esca dall’ignoranza e dallo sfruttamento di chi come lei aspetta ogni mattina Il treno assieme ad altre “facce disegnate dal cammino del dolore”.
De Andrè si è sempre proclamato anarchico e libertario, anche se sui molteplici significati di anarchia si potrebbero spendere fiumi di inchiostro. Quando ha tentato di parlare direttamente di politica, con “Storia di un impiegato”, è stato massacrato dalla critica militante: i suoi conti al passato, con la memoria di un ‘68 e di un piccolo- borghese in crisi, sono stati considerati un fiasco appiccicaticcio. Ma De Andrè era talmente dentro la realtà che non doveva parlarne con proclami politici, bensì con le sue storie, e allora, da “Preghiera in gennaio”, dedicata a Tenco, e prima ancora con “La guerra di Piero” questa realtà appariva senza bisogno di nessuna spiegazione. Erano tempi diversi. De Andrè e De Gregori non ebbero alcun bisogno di citare Tenco nelle canzoni a lui dedicate, perché la forza delle parole lo diceva immediatamente. Venditti non dovette fare un trattato contro la droga, perché in “Lilli” ne era cantata efficacemente la rovina. In “Cercando un altro Egitto” De Gregori parlava della piazza (“Il terzo reparto celere controlla/ non c’è nessun motivo di essere nervosi/ mi dicono agitando i loro sfollagente”) senza fare proclami, ma guardando semplicemente la cronaca dalla parte di chi ci stava dentro: i giovani di allora.

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