GazaDi Daniele Rocchi
Ci sono ancora gli addobbi natalizi, l’albero ricco di luci e un grande presepio ad abbellire la piccola chiesa parrocchiale della Sacra Famiglia di Gaza. E poco importa se grandi macchie di umidità dal soffitto lasciano cadere a terra gocce di acqua, residuo delle piogge intense dei giorni scorsi che hanno reso le strade della Striscia, già piene di buche, coperte di fango e meno praticabili del solito. La sparuta comunità cattolica di Gaza, poco più di 150 fedeli, si è raccolta così, ieri 11 gennaio, intorno alla delegazione dell’Holy Land Coordination (Hlc) – composta da 44 tra vescovi di Usa, Canada, Ue, Sud Africa, giornalisti e operatori di organismi cattolici – che proprio dalla Striscia martoriata dalla guerra della scorsa estate ha scelto di cominciare la sua annuale visita in Terra Santa. Una di quelle periferie esistenziali, care a Papa Francesco, che il clima di conflitto e l’instabilità politica ed economica della regione pongono costantemente all’attenzione del mondo. Che la visita sarebbe stata particolarmente difficile lo si è capito subito quando, di buon mattino, al valico di Erez la delegazione Hlc è stata costretta a dividersi: le autorità israeliane, infatti, hanno concesso il visto di ingresso solo a nove persone, tre delle quali vescovi. Il resto della delegazione è stato costretto ad attendere fino a pomeriggio inoltrato, prima di poter entrare a Gaza. Fra i primi nove, anche il giornalista che scrive queste righe e racconta la visita.
Per quanto piccolo il gruppo dei vescovi, guidato da monsignor Oscar Cantù, presidente della Commissione internazionale Giustizia e Pace della Conferenza episcopale americana, ha voluto ribadire la vicinanza e la solidarietà delle Chiese alla comunità cattolica gazawa. “Non siete soli” ha detto mons. Cantù, prendendo spunto dal vangelo del Battesimo di Gesù, e ha esortato a sperare e a perseverare nella fede. E mentre in parrocchia si celebrava la messa, al di là del valico di Erez il resto della delegazione, vescovi in testa, si è riunito a pregare le lodi. L’incontro è proseguito in una salone parrocchiale dove i parrocchiani hanno potuto raccontare le loro storie. “Il nostro popolo soffre – ha detto il medico Atallah Tarazi – non abbiamo acqua, energia elettrica, manca il lavoro e la ricostruzione per ora è ferma. Quella del 2014 è stata la guerra peggiore, la più lunga, ben 51 giorni. Ricordo i feriti che giungevano in ospedale, molti erano bambini, donne e anziani. Le loro ferite quando si rimargineranno?”. Tuttavia la speranza non manca e nemmeno il coraggio di guardare avanti e di sognare. In mezzo a tante macerie, 18mila le case distrutte e 37650 quelle inagibili, la parola “sogno” pare un azzardo, ma Tarazi è certo: “Il nostro sogno, quello dei nostri giovani è di restare a Gaza, qui siamo nati, qui abbiamo i nostri cari, amiamo la nostra terra. Chiediamo solo di poter lavorare, di andare a scuola, di avere una casa, di vivere con dignità”. Ma i problemi non sono solo legati alla situazione del territorio ce ne sono anche altri legati ad un crescente fondamentalismo religioso. “Grazie anche alla Chiesa – ha spiegato il medico – diamo un contributo al nostro popolo, con scuole, ospedali, istituti di accoglienza. Queste sono le armi con cui combattiamo il fanatismo. Sono le armi della tolleranza, del rispetto, dell’amore. I fanatici non avranno la meglio”. “A Gaza vivono oltre 1,5 milioni di persone e moltissime nemmeno sanno che nella Striscia ci sono dei cristiani – sono state le parole di madreNabila, delle Suore del Rosario – tuttavia chi ci conosce ci ama. Sono tanti quelli che vogliono mandare i loro figli nelle nostre scuole. Si fidano della nostra educazione e istruzione. Purtroppo accade anche che nelle moschee, il venerdì, si sentano ancora imam proibire ai loro fedeli di salutare i cristiani, di incontrarli. Ma noi andiamo avanti per costruire il dialogo e la convivenza”.
Ma c’è un’altra Gaza da ricostruire, quelle delle abitazioni bombardate, degli ospedali distrutti, delle scuole danneggiate, macerie sulle quali i vescovi hanno camminato accompagnati da tanti giovani incuriositi dalla loro presenza. Con semplici gesti li hanno guidati in quelle che erano le loro case oggi ridotte ad un cumulo di mattoni. Son saliti sui tetti di palazzi, ormai scheletri, della zona di Shajaieh, la più colpita dall’aviazione e dai carri armati di Israele. In queste zone distrutte raccolgono ferro e mattoni per rivenderli a chi vuole ricostruire. Carretti trainati da muli e asini, motorette con piccoli rimorchi e carriole vengono riempite con i detriti e portati ai mercati. L’economia nella Striscia si riprende anche così, riciclando le macerie. In attesa di rinascere ancora. “O della prossima guerra”, dice salutando con un sorriso amaro, il vice parroco della Striscia, padre Mario Da Silva.

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