PetrolioDi Davide Maggiore

Il petrolio ai minimi non è una buona notizia per tutti. E forse in Africa non lo è per nessuno. Alla chiusura delle borse il 13 dicembre, il prezzo del greggio era sceso a 57 dollari il barile a New York: il livello più basso da maggio 2009 che, secondo esperti come Andy Xie, già capo analista per Morgan Stanley e Fondo monetario internazionale (Fmi), potrebbe rimanere simile “anche per qualche anno”.

Ciad, successo apparente. Il colpo alle economie dei Paesi africani che sul petrolio avevano puntato rischia di essere grave. Un esempio è il Ciad, dove già il ribasso del 2009 aveva creato preoccupazioni. Ancora tre anni dopo, a situazione normalizzata, il Fmi aveva espresso dubbi su una nazione che restava “vulnerabile ai prezzi volatili del petrolio” e avrebbe dovuto, secondo il capo missione dell’istituzione internazionale nel Paese, Jaroslaw Wieczorek, “aumentare le entrate che non derivano dal greggio e migliorare la gestione della spesa”. Eppure, stando semplicemente ai numeri, il Paese può essere considerato un caso di successo. All’inizio dei progetti di sfruttamento, nel 2003, le stime dei guadagni ottenuti grazie alle royalties sulle vendite arrivavano a 2,5 miliardi di dollari in 25-30 anni, ma dieci anni dopo gli incassi reali erano stati quattro volte superiori. Addirittura, ciò che il Ciad – al momento del picco dei prezzi – otteneva in un mese vendendo greggio era pari alla cifra che, faticosamente, stava tentando di ottenere in prestito dal Fmi: 11 milioni di dollari. Il problema, però, era anche la ripartizione di questo denaro: ben poco ne è arrivato effettivamente sul territorio, come la Chiesa locale ha denunciato per anni, entrando in contrasto con il governo. A subirne le conseguenze era stato l’allora vescovo di Doba, monsignor Michele Russo, che nel 2012, dopo aver definito “iniqua la gestione dei profitti del petrolio” era stato espulso dal Paese ed era stato autorizzato a farvi ritorno solo alcuni mesi dopo. Ad essere privilegiati, in effetti, erano stati quei progetti che in gergo si definiscono “elefanti bianchi”: enormi ma isolati e senza ricadute concrete sul territorio. Come l’università progettata proprio a Doba, una città di appena 50mila abitanti, in un Paese dove, ogni anno, sono solo 5mila i ragazzi che superano l’equivalente dell’esame di maturità. Per non parlare del paradosso per cui, dati gli altissimi costi di trasporto, i prezzi finali dei carburanti, per i cittadini dell’area, sono addirittura cresciuti negli anni. Una conseguenza negativa che resterà anche con il calo dei prezzi, mentre i benefici rischiano di essere molto più rari.

Ghana, difficoltà e speranze. Errori dovuti a “corruzione e favoritismo” in un clima di “impunità totale”, come aveva denunciato la stessa conferenza episcopale del Ciad o solo a mancanza di previsione? Quest’ultimo, di certo, non sembra essere stato il caso del Ghana, che dopo aver ottenuto, grazie alla scoperta di giacimenti offshore sette anni fa, tassi di crescita arrivati a toccare il 15% nel 2011, aveva previsto di accantonare il 30% delle entrate “per le generazioni future”. Il restante 70% sarebbe stato destinato a progetti di sviluppo da individuare di volta in volta. Questo “libro dei sogni” contenuto nel cosiddetto “Petroleum revenue management act”, tuttavia, rischia di non realizzarsi ora che i prezzi sono in calo. Tanto più che già il calo di quelli del cacao e dell’oro – altri due prodotti da esportazione – ha messo l’economia di Accra in pesante difficoltà: la spesa pubblica è aumentata del 6% in tre anni, ma le entrate fiscali sono rimaste, in percentuale, stabili e negli ultimi cinque anni il debito pubblico è passato dal 33% a oltre il 57% del Pil, con un’inflazione arrivata al 15%. Conseguenze, ancora una volta, destinate a durare nel tempo e a colpire soprattutto i più poveri. A livello macroeconomico, però, le prospettive per il medio termine restano buone: con una crescita prevista intorno al 7% e una gestione comunque oculata dei proventi petroliferi, il Ghana ha la capacità di risollevarsi. A patto, però di riuscire ad evitare, ancora una volta, lo spettro delle malversazioni, contro cui ha messo in guardia di recente l’arcivescovo della capitale, monsignor Charles Palmer-Buckle. La corruzione, ha spiegato in un recente intervento pubblico, impedisce allo Stato di svolgere “il suo compito, che è quello di proteggere i poveri” e combatterla significa “impegnarsi per il bene del Paese”.

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