ceiDi M. M. Nicolais

“Se non investiamo seriamente sulla comunicazione, rischiamo l’irrilevanza e la marginalità”. Lo ha detto monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, aprendo a Roma il Convegno su “Nuovi media e nuovo umanesimo”, organizzato da Anicec e promosso dall’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali e dall’Università Cattolica del Sacro Cuore in occasione dei dieci anni del Direttorio Cei sulle comunicazioni sociali (“Comunicazione e missione”). La Chiesa italiana, dunque, continua a investire sui media cattolici (Avvenire, RadioInblu, Tv2000, Sir, Settimanali cattolici aderenti alla Fisc), con una parola d’ordine: “Abitare”. Ovvero, progettare nuove forme di presenza e testimonianza nella società digitale. “Umanizzare” è l’altro verbo risuonato durante i lavori: da Palermo (1995) a Firenze (2015), la posta in gioco resta la persona, e ai cattolici spetta il ruolo di presidio dell’umano. Lo “stile” che la Chiesa deve adottare in materia di comunicazione, ha spiegato mons. Galantino, deve essere quello di una Chiesa “in uscita”, come vuole Papa Francesco: nessuna “nostalgia sterile”, ma una Chiesa “che sappia e che voglia osare, che non abbia paura di dire ‘qui ho un po’ esagerato, qui mi sono sbagliato’”.
La prima missione. “La nostra missione – ha precisato il segretario generale della Cei – è prima di tutto una missione di comunione, ognuno con i mezzi che ha a disposizione”. No, allora, ai “professionisti del lamento” e alla “sindrome della moglie di Lot, che cammina con la testa all’indietro”. Si, invece, a media cattolici che abbiano la capacità di “provocare domande, di educare alla domanda e offrire strumenti critici perché le domande possano essere sensate e portino a risposte concrete”. “È importante che la nostra comunicazione non sia una comunicazione troppo prevedibile, una comunicazione da replicanti”, ha ammonito il vescovo, esortando a “non pensare che tutto comincia con noi”: ci vuole “fedeltà e gratitudine per il passato, anche a quello che ci ha dato fastidio, per non diventare ridicoli” e poi “un’attenzione seria, faticosa per il presente, per esser proiettati in maniera seria verso il futuro”.
Abitare il digitale. “Cosa è rimasto” del Direttorio? A rispondere a questa domanda è stato monsignorClaudio Giuliodori, presidente della Commissione Cei per la Cultura e le Comunicazioni sociali. “C’è ancora molto da attuare, per un cammino di prospettiva a lungo termine”, ha esordito il vescovo, che ha ripercorso il rapporto tra Chiesa e media partendo dalla “svolta del Convegno di Palermo” nel 1995, in cui “il primo ambito di riflessione è stato riservato al tema della cultura e della comunicazione” e si sono fatte “ipotesi di lavoro molto coraggiose”. Nasceva in quegli anni l’idea del “progetto culturale”, come “cerniera” tra la Chiesa e la società, e si andava affermando l’idea per cui “comunicazione è cultura”. Oggi, ha detto mons. Giuliodori, “la comunicazione è diventata paradigma antropologico” ed è necessario che “la comunità ecclesiale abiti coraggiosamente, e con la dovuta saggezza e prudenza”, la società digitale, partendo dalla consapevolezza che i media “possono divenire occasione di umanizzazione”. Ed è questa, ha concluso il vescovo, “la grande sfida che ci apprestiamo ad affrontare con il Convegno di Firenze”.
Scommettere sull’umano. “L’era digitale è l’era della scommessa sull’umano”. Ne è convinto monsignorDomenico Pompili, sottosegretario della Cei e direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, secondo il quale “o abitiamo questo tempo e questi nuovi spazi con attenzione e premura per l’umano, o saremo assorbiti da un modello tecnico che ci sfuggirà di mano, perché va molto più veloce della nostra capacità di elaborarne i significati”, ha ammonito il portavoce della Cei, ricordando che “il realismo cristiano è quello di chi sa che ciò che fa la differenza è la persona umana. I media hanno senso laddove riescono a farci essere più umani, a produrre la cultura dell’incontro”. Oggi, per mons. Pompili, “i contenuti della comunicazione sono ciò che le persone condividono. I media siamo noi”. Già dieci anni fa, il Direttorio Cei sulle comunicazioni sociali “aveva colto l’importanza e la centralità del fattore umano”. Il modello da seguire è quello della “Chiesa in uscita” auspicata dal Papa, che “decide di annullare le distanze rispetto ai suoi interlocutori”. Di qui la necessità, ha concluso il sottosegretario della Cei, di “rompere schemi e gabbie ideologiche, anche all’interno dell’”ecosistema dei media cattolici”.
“Cupole” e “periferie”. “Ci sono ‘cupole’ che condizionano la fruizione delle notizie, che amputano la realtà”. A denunciarlo è stato Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, durante la tavola rotonda del Convegno. Per Tarquinio “non amputare la realtà” è, invece, uno dei compiti principali che i media cattolici devono assumersi, in un’epoca di “informazione selfie, che ci somiglia”. “Nel mondo dell’informazione – ha fatto notare Domenico Delle Foglie, direttore del Sir – è cambiato tutto: o cambiamo e accettiamo la sfida, o le cose ci sfuggiranno di mano. Il Sir, ad esempio, ha introdotto la “diretta Twitter” dell’udienza generale del Papa, che viene ora seguita in un modo triplice: tweet, lanci di agenzia e video di sintesi di un minuto. Delle Foglie ha anche proposto che il portale della Cei in fase di progettazione e nel quale confluiranno sinergicamente i contenuti dei media cattolici, possa effettivamente essere il seme di una “community”. “Una finestra che guarda e che racconta il mondo”: cosi il direttore di rete, Paolo Ruffini, ha definito Tv2000, che vuole essere “interessante per tutti, per chi crede e per chi non crede”. “I giornali diocesani raccontano storie che restano confinate nei territori, per questo ci facciamo compagni di viaggio delle persone ascoltandole”, ha fatto notare Francesco Zanotti, presidente della Fisc. “Ci sono periferie geografiche ed esistenziali”, ha aggiunto: “dobbiamo raccontare le storie di speranza nel territorio, ma con uno sguardo che va oltre”.

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