Don GinoDi Patrizia Caiffa

“Prete di strada? No, no. Io mi sento più prete di carcere, di quartiere”. Don Gino Rigoldi ci accoglie nel suo modesto ufficio in un anonimo palazzo verde nella periferia sud milanese. Poco prima aveva incontrato una ex detenuta, cercato soluzioni ai suoi problemi. Nessuno direbbe mai che lì c’è la sede di Comunità Nuova, la storica associazione da lui fondata 40 anni fa, che si occupa di disagio giovanile, dipendenze, immigrati, rom, di povertà ed emarginazione sociale, con numerosi centri e iniziative in Italia e in Romania. “E poi io vivo in un appartamento con una decina di ragazzi usciti dal carcere – prosegue -. Non potrei mai abitare da solo e passare le serate davanti alla televisione come tanti preti: mi verrebbe la depressione. Ho una stanza in una casa malandata ma non mi sento povero. Non mi serve altro”. Nel suo ufficio c’è una grande lavagna bianca con tantissime firme, fiori disegnati e una scritta: “Grazie Gino per questi straordinari 70 anni”. “È di 5 anni fa”, precisa, poi si siede alla sua scrivania piena di carte, al centro c’è la sua preziosa agenda. Parla a ruota libera, chiede di dargli del tu. Illustra nuovi progetti, dà la sua opinione sull’attualità. Ogni tanto si distrae perché ricorda che deve comprare gli occhiali a uno dei suoi ragazzi del carcere minorile Beccaria, dove è cappellano da 41 anni e lo sarà “fino a quando morirò, per questo ruolo non si va in pensione”. Un ritmo di parola veloce ed efficace come la sua azione, pratica e diretta. Sulla parete alle sue spalle è appeso un quadro latinoamericano, la domanda su Papa Francesco è inevitabile: “Questo Papa è una grazia di Dio. È una cosa straordinaria”.

Una proposta ai religiosi e alle diocesi: case sfitte ai giovani. L’urgenza del momento per don Gino è l’housing sociale: “è assurdo che tanti ragazzi non possano sposarsi o fare figli perché non hanno i soldi per pagare un affitto o un mutuo”. Comunità Nuova, insieme a varie banche e fondazioni, ha attivato da un anno a Milano una esperienza estremamente positiva: ha messo a disposizione 235 case popolari ristrutturate – in centro e in periferia – a giovani coppie, padri o madri separati, a 500 euro al mese. Dopo 9 anni possono comprarla scontando la metà dell’affitto pagato. Ad una condizione: “Noi vi diamo la casa solo se ‘fate cortile’”. Ossia condividere e aiutarsi tra vicini: portare a turno i figli di tutti a scuola, fare la spesa di gruppo per risparmiare, organizzare momenti di festa. “Funziona benissimo ed è molto economico – racconta -. Sono tutti entusiasti e non abbiamo avuto nessuna morosità”. Ora vuole estendere questo modello anche ad altre città, quelle con gli affitti più esosi, come Roma, Bologna, Torino. Don Gino non si ferma davanti a nulla quando deve compiere il bene. Sa che potrebbe avere a disposizione migliaia di appartamenti sfitti. “Nella vita ho imparato che devo avere rispetto di tutti ma soggezione di nessuno”, sottolinea, per cui ama lanciare sfide sempre più in alto. Se Papa Francesco ha chiesto ai religiosi di aprire i conventi agli immigrati, questo mite sacerdote milanese delle periferie chiede ora a monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, di intercedere presso ordini religiosi e diocesi “perché diano le case sfitte ai giovani, per trasformarle in housing sociale”.

Dalla “casa di ringhiera” al carcere minorile.
Del resto don Gino, papà ferroviere, mamma casalinga, ha appreso l’arte del vivere sociale in una tipica “casa di ringhiera” milanese, un cortile sempre pieno di bambini, giochi in strada e tuffi nel Naviglio. A 13 anni ha iniziato a lavorare come metalmeccanico, poi come impiegato tra buste paghe e contributi, finché a 18 anni, quasi contro la sua volontà, ha risposto ad una chiamata ineluttabile, complice la stima e l’ammirazione per un prete dell’oratorio. “Quando ho visto per la prima volta il seminario, con quelle scale lussuose, mi sono detto: ‘Io qui non ci vengo neanche morto’. E invece sono entrato”. Dopo l’ordinazione nel ’67, per 4 anni è stato vicerettore del collegio arcivescovile, seguiva 120 ragazzi. “Lì ho imparato a nuotare”, scherza usando una metafora, perché la vocazione di una vita era già diretta verso un luogo preciso, il carcere minorile. Ogni anno nella sezione penale entrano in 300, il 60% sono stranieri. “Mi piaceva l’idea di lavorare con i giovani – racconta -. L’impatto è stato potente. La sera del primo giorno mi hanno risposto: ‘Tu dici belle cose, ma quando esco torno a rubare’”. Da qui l’idea di aprire la porta di casa all’accoglienza dei giovani ex detenuti italiani e stranieri, per farli sentire parte di una comunità e aiutarli nel percorso di reinserimento sociale. “A noi ci frega lo sguardo – dice -. Tu li vedi e pensi: come fai a dimenticarli?”. Negli anni ha perfino adottato tre ragazzi, che oggi hanno 34, 32 e 28 anni.

In casa e in carcere con i ragazzi. A casa sua ora vivono una decina di giovani, tutti hanno alle spalle reati gravi. Alcuni di loro lo raggiungono in ufficio. Sono alti, vitali, scoppiano di vita ed esuberanza. Lo salutano con affetto, come un padre. Tutti i giorni don Gino si alza alle 6, dialoga un po’ con Gesù, organizza, progetta, incontra persone, viaggia, tiene conferenze. Ogni pomeriggio va dai suoi ragazzi in carcere, ci parla, li aiuta a risolvere i problemi. Il sabato cucina lui: risotto alla milanese. E la domenica messa insieme. “I giovani sono cambiati – osserva -, sono una bella impresa. Quelli di adesso sono come il gelato: affettivi, intelligenti, ma per loro il futuro dura fino a stasera. Hanno pochissima fiducia in sé stessi. Molti non hanno mai lavorato. Quando si accorgono di saper fare qualcosa, quando possono dire ‘io valgo qualcosa’, è una rivoluzione”. Don Gino guarda l’orologio, è tardi. Si alza, prende la sua vecchia e pesante 24 ore nera – incredibilmente simile a quella di Papa Francesco – si congeda come un amico di vecchia data e si avvia a piedi, un po’ curvo e pensoso, verso il Beccaria. È a 500 metri, pochi passi. Forse, è il suo unico momento di solitudine.

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