burkaDi Emanuela Vinai

Se non è un caso da manuale di eterogenesi dei fini, poco ci manca. Il nuovo capitolo dell’esperimento sociale in video riproposto da tutti i quotidiani online, che ha visto protagoniste donne che camminano per strada oggetto di apprezzamenti invadenti, stavolta fa sfilare una ragazza in due versioni. Prima in jeans e maglietta, con le note conseguenze, poi coperta da un hijab, il velo nero che avvolge dalla testa ai piedi e lascia libero solo il viso: cinque ore di silenzio. Ricapitoliamo in caso non si fosse capito: la stessa fanciulla che passeggia in jeans e maglietta raccoglie commenti di ogni tipo, mentre ricoperta da un burka diventa invisibile. Ora, se la logica non è un’opinione, qualunque musulmano ancorché moderato vi dirà che alla fine questo dimostra che hanno ampiamente ragione loro: la donna deve andare in giro coperta, così non suscita il desiderio maschile. Oppure, traslato all’occidentale, e usufruendo di uno dei tormentoni più famosi della commedia all’italiana, basta pensare a quel “Carmela, componiti!” del siculo Ferribotte all’indirizzo della sorella, una splendida, nerovestita e affatto discinta Claudia Cardinale.
A Nord e a Sud del mondo, da millenni, si sottende e si tramanda un grande e terribile mantra: se ci molestano è colpa nostra, ce la siamo cercata. Invece di educare gli uomini al contenimento degli istinti è più facile rimuovere l’oggetto del problema: state coperte e non correrete nessun pericolo. Siete sicuri? Hijab obbligatorio per tutte allora? Al netto del buongusto che non dovrebbe mancare nella dotazione personale di ogni donna, da quale comitato di occhiuti censori faremo valutare quali abiti sono consoni per la morale? Coprire le grazie per non indurre in tentazione è davvero la panacea in grado di fermare le aggressioni e gli stupri ai danni delle donne che camminano, corrono, fanno la spesa, ballano, portano a spasso il cane, girano il mondo? Anche perché, come dimostra la Corte di Cassazione con una sentenza che qualche anno fa mobilitò le parlamentari, anche i jeans possono essere alibi per la violenza: sono stretti, senza la partecipazione della donna è impossibile toglierli.
Ma se un maschio riceve fischi di ammirazione dalle donne per strada si sente molestato o lusingato? Aumenta proporzionalmente l’autostima oppure teme per la sua incolumità? Sì perché il problema è il sentirsi minacciate, il timore nemmeno così infondato che a un complimento possa seguire un comportamento violento, aggressivo, di abuso. Non è il pappagallo in sé che infastidisce, ma la percezione di poter essere in una situazione pericolosa.
Grazie a questi filmati vengono alla luce molestie, sessismo e prevaricazioni, che è anche cosa buona e giusta, ma far passare l’idea che l’unico modo per salvarci è nasconderci, beh, francamente è assurdo. Chiuderci sotto un velo integrale ci annulla, ci rende invisibili, ci cancella. Se la donna non c’è, nessuno la importuna. Geniale, nevvero?
In attesa di nuovi capitoli della sag(r)a della molestia stradale, che in nome del politicamente corretto ha già sottoposto allo stesso trattamento un gay, ci permettiamo suggerimenti di script agli autori. Mia madre era solita ripetere che l’abito non fa il monaco, ma fa l’opinione della gente e allora si impone un’ultima, scorretta, considerazione: ma se la ragazza l’avessero vestita da suora, verosimilmente ottenendo lo stesso risultato in termini di indifferenza, le polemiche sarebbero state le stesse?

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