aziendaDi Luigi Crimella

Se dite “impresa”… negli Stati Uniti, i primi nomi a cui si pensa sono Apple, Microsoft, Google, Amazon, e simili. Sono tutte società di grandissime dimensioni, quotate in borsa, con un nucleo forte di azionisti che ne detengono il controllo e una miriade di piccoli azionisti in ogni parte del mondo che beneficiano degli utili di fine anno e dell’eventuale incremento del valore del titolo. In Italia il discorso è diverso. Esistono sì alcune grandi aziende, come Fiat (oggi divenuta Fca perché fusa con Chrysler ed emigrata negli Usa), Enel, Eni, Finmeccanica, Autostrade, Benetton e così via insieme ad alcune grandi banche. Ma l’universo delle imprese è molto più polverizzato, e soprattutto di dimensioni medie più piccole, se non piccolissime. Basti pensare che il peso delle imprese familiari sul totale degli addetti non agricoli del nostro paese rappresenta il 69,3% degli occupati. Sommando anche le imprese agricole, che sono quasi tutte di tipo familiare, si supera il 90% dei lavoratori dipendenti. Alle grandi aziende rimane a malapena il restante 10%. È vero che “impresa familiare” non significa necessariamente impresa piccola: anche il gruppo Fininvest-Mediaset della famiglia Berlusconi è, a modo suo, una “impresa familiare” in quanto controllata dal fondatore e dai figli tramite un complesso reticolo societario che fa capo a una holding. Pur con tutti i requisiti per essere considerata una grande azienda, con ramificazioni operative e societarie di tutto rispetto, l’aspetto familiare anche dentro Fininvest rimane determinante, a riprova di quanto in Italia il valore della “famiglia” collegato con le attività economiche da essa generate, sia grande.

Una micro-imprenditorialità diffusa. Il discorso sulle “imprese di famiglia” potrebbe assumere una più adeguata rilevanza pubblica qualora a livello politico e culturale si prendesse atto di alcuni dati: anzitutto che parlare di un 90% di imprese italiane riconducibili alla “famiglia” dei fondatori e proprietari significa delineare una cultura imprenditoriale di massa nettamente prevalente in tutte le regioni del paese. Da nord a sud, sui monti e nelle pianure, persino sulle isole, le statistiche ufficiali parlano di una netta incidenza percentuale di tali imprese. Spiccano i casi di un buon numero di province “alpine” come pure in Calabria, nelle Marche, in Sicilia, Sardegna e Puglia, dove le imprese non agricole familiari superano addirittura con percentuali “bulgare” l’80-85% del totale. Se si aggiungessero le imprese agricole, avremmo un bingo senza precedenti. Il contraltare di questo dominio incontrastato delle imprese familiari è che nelle stesse aree, per motivi evidenti, ci sono poche se non pochissime o “zero” grandi imprese industriali a capitale diffuso. Ma questa è la storia industriale del nostro paese, segnato da due secoli a questa parte da una piccola imprenditorialità creativa, che ne ha fatto la fortuna negli anni ’50-60 e fino all’80, prima che partisse la globalizzazione e con essa esplodesse la concorrenza internazionale dei paesi in via di sviluppo.
Vittime dell’egemonia culturale anglo-americana. Negli studi effettuati presso la Lumsa (Libera Università Maria SS. Assunta) di Roma, che recentemente ha voluto promuovere un premio di laurea “Gli studenti crescono con le imprese di famiglia”, i professori Ferri, Bruni, Corradi e altri, concordano sul fatto che vista questa ampia diffusione, sia opportuno rafforzare i legami tra i giovani e tali imprese, portatrici dei valori della famiglia da un lato e di quelli di una economia “sana”, legata al territorio e impregnata del solidarismo tipico del nostro paese dall’altro. Anzi, presentando lunedì 10 novembre le motivazioni di tale premio, vinto da una neo-laureata dell’Università Tor Vergata di Roma (Francesca Monti, con la tesi su “Le euristiche nei processi decisionali di impresa. Evidenze dal Family Business”) il prof. Ferri ha fatto notare che “in Italia siamo come vittime dell’egemonia culturale di matrice anglo-americana secondo la quale è dominante la visione individualistica dell’economia e dell’agire dell’uomo. Invece da noi prevalgono i valori di tipo familiare e territoriale, con notevoli contenuti solidaristici, dove gli imprenditori sentono e vivono l’impresa come un prolungamento della ‘famiglia’, e trattano conseguentemente sia i dipendenti, sia i tecnici, sia i fornitori come una parte della propria storia”.
Un solidarismo poco valorizzato. La politica è quindi chiamata in causa con la richiesta di considerare maggiormente le imprese familiari. Il rettore della Lumsa, prof. Francesco Bonini, ha sottolineato che “occorre portare l’impresa di famiglia al centro del dibattito pubblico anche per favorire l’adozione di politiche non penalizzanti nei suoi confronti”. Del resto, ha notato il prorettore Ferri, “la preponderanza numerica di tali imprese contiene anche un elemento di criticità laddove si attuino scelte sbagliate nei processi di transizione generazionale dai fondatori agli eredi”. L’impresa di famiglia, in Italia, si lega ad un’altra grande presenza, anch’essa poco considerata benché numericamente consistente: quella delle imprese “sociali” del cosiddetto terzo-settore fatto di micro-realtà del no-profit, della cooperazione, dei lavori a finalità sociale utilizzati dagli enti locali. Anche in questo caso siamo di fronte a milioni di persone che operano in realtà a forte impronta solidaristica. Quindi è quanto mai opportuno che si sviluppi una attenzione adeguata perché l’Italia non ripartirà se si trascurano le aziende familiari e il privato sociale e cooperativo, che ne innervano da nord a sud la sua struttura produttiva.

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