lavori sfruttamentoPatrizia Caiffa
Siamo abituati a leggere notizie di gente disposta a fare ore di fila per acquistare l’ultimo modello di telefonino o tablet per essere “trendy”. Non sempre siamo disposti, invece, a guardare cosa c’è dietro il business di quegli stessi telefonini. Un’alzata di spalle e via: non ci interessa, non ci riguarda. Invece è importante sapere che, nascosti nei chip e nei componenti dei cellulari, vi sono minerali “insanguinati” dai nomi pressoché sconosciuti come il coltan, la cassiterite, il tantalio, la wolframite. Tutti minerali provenienti da zone di guerra, come la regione del Kivu nella Repubblica democratica del Congo, che in vent’anni – lo sapevate? – ha visto 8 milioni di vittime, causate proprio dal traffico del coltan. Per non parlare delle durissime condizioni di vita e lavoro dei minatori, molti dei quali bambini di 7/8 anni: dopo dieci anni di scavi a mani nude in gallerie che sembrano gironi infernali, se non muoiono di frane o crolli si ammalano di malattie linfatiche a causa della radioattività. Nella cittadina di Rubaya, ad esempio, con 10mila abitanti e 30mila sfollati, l’unica possibilità di sopravvivere è lavorare nella miniera di Mudere, sotto il controllo delle milizie Nyatura che taglieggiano e terrorizzano la popolazione con soprusi, esecuzioni sommarie e stupri. Ogni carico di minerali è scortato da soldati armati per prevenire gli assalti. Le guerre in queste zone sono volute e alimentate per permettere i traffici illegali di questi minerali utilizzati nella telefonia, nell’elettronica e nell’informatica, nel silenzio assoluto dei media. Il 60% del coltan proviene proprio dal Congo. Per chiedere la tracciabilità di questi minerali ha preso il via ad ottobre la Campagna, “Minerali clandestini” (www.mineraliclandestini.org) promossa dal Cipsi, coordinamento di 31 ong e associazioni di solidarietà internazionale e Chiama l’Africa, che hanno dedicato a questo tema anche il calendario 2015, con foto di Erberto Zani dalla miniere del Kivu.
Regole internazionali contro il contrabbando. I “minerali clandestini” viaggiano nel mondo gestiti da compagnie senza scrupoli e mafie internazionali. L’unica regola vigente è quella del contrabbando. E il consumatore non sa di essere indirettamente corresponsabile di sfruttamento dei lavoratori, violenza, conflitti. “È vero, nessuno di noi ha la forza di resistere a tutto – commenta Eugenio Melandri, coordinatore di Chiama l’Africa -. Bisogna pur vivere e per vivere siamo spesso costretti a sporcarci le mani. Ma è pur vero che organizzandoci, cominciando a svolgere azioni di lobby positiva, possiamo trovare i canali per farci ascoltare, per cambiare il corso delle cose”. Ad esempio – è lo scopo principale della campagna -, chiedendo una normativa internazionale chiara per la tracciabilità dei minerali come il coltan, “che metta fine ai conflitti, agli interessi, alle violenze e alle guerre per la ricchezza”, aggiunge Guido Barbera, presidente del Cipsi.
L’importanza del consumo critico. La campagna propone anche il consumo critico, boicottando quei prodotti che propongono materiale insanguinato. “Un modo per porre fine al traffico illegale di coltan – spiega Francesco Gesualdi, coordinatore del Centro nuovo modello di sviluppo – è responsabilizzare le imprese che si trovano nella parte finale della filiera. Se le imprese fossero costrette a esporre pubblicamente tutti i passaggi seguiti dai loro minerali, dall’estrazione all’ingresso nei loro stabilimenti, di sicuro non userebbero più il coltan proveniente illegalmente dal Congo. Di conseguenza il traffico si esaurirebbe per mancanza di mercato”. Una ong ha pubblicato l’anno scorso un rapporto con l’elenco delle aziende con comportamenti il più possibile etici: sono sopra il 30% di produzione pulita Intel, Hp, Philips, Apple, Motorola, Nokia, Panasonic. Si stanno impegnando ma sono sotto il 30% Ibm, Sony, Samsung, Toshiba. Le peggiori sono Nintendo, Canon, Nikon, Sharp, Htc. Tra le altre azioni suggerite ai consumatori: comprare telefonini e strumenti elettronici solo quando è necessario, riciclare l’usato, scegliere i prodotti il più possibile certificati, fare azioni di lobby presso produttori e politici.
In attesa della normativa europea. Sull’onda della pressione internazionale anche l’Unione europea è stata costretta a progettare una normativa che prevede di istituire un sistema di autocertificazione per gli importatori comunitari di stagno, tantalio, tungsteno e oro. Ma il testo proposto nel marzo 2014 non soddisfa le associazioni impegnate in quest’ambito, perché le imprese europee non sarebbero obbligate a non comprare i minerali insanguinati, ma solo invitate a farlo. Inoltre “non verrebbe chiesto di autocertificarsi a tutte le imprese interessate da questo mercato a rischio – spiega Monica Di Sisto, vicepresidente di Fairwatch -, ma solo gli importatori, cioè 300 commercianti, 20 raffinatori/fonderie e circa 100 produttori di componenti in tutta Europa”. Il 2015 sarà un anno decisivo in questo senso.

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