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Penalizzate le famiglie a più alto tasso di responsabilità

volpiM. Michela Nicolais

“Se tutte le coppie, e tutte le forme di famiglia, sono allo stesso livello di diritti, non c’è più nessuna convenienza culturale e ideologica a sposarsi e fare dei figli”. A lanciare un grido di allarme su uno dei paradossi più eclatanti della società occidentale è Roberto Volpi, statistico e autore del volume “La nostra società ha ancora bisogno della famiglia?” (Vita e Pensiero). Prendendo le mosse da una “lettura laica” del Sinodo, l’esperto esorta a non cadere nell’errore di credere che l’aumento delle coppie di fatto compensi il calo vertiginoso dei matrimoni, sia civili che religiosi. E avverte: se continua a crescere il fenomeno delle “coppie di fatto non conviventi”, nel giro di tre o quattro decenni la famiglia – quella ad “alto tasso di responsabilità”, formata da un uomo e una donna con figli – è destinata a sparire. “È la famiglia in sé che ha perso, bisogna ridare forza all’idea di famiglia in quanto tale”.

Professore, come ha “visto” da laico il Sinodo?
“Onestamente mi sono fatto un’idea di lavori in corso. Da laico, le confesso una cosa: se la Chiesa semplicemente si limita ad andare verso il mondo non mi attrae più, non mi pone più domande. Mia madre era cattolica praticante, mio padre non si poneva il problema, ma era estremamente tollerante verso mia madre, la Chiesa e i preti. Io non mi sono mai sentito escluso o fuori posto, ho sempre avvertito la Chiesa come qualcosa che doveva impegnarmi: mi piaceva nella misura in cui poneva degli interrogativi e mi chiamava a pormi seriamente in ricerca. Oggi ho divorziato e mi sono risposato con una donna cattolica praticante: vado in chiesa con lei, lei fa la comunione e io no. Io mi sento su un crinale, ma non avverto di dover aderire con questa modalità alla comunità”.

Anche al Sinodo una delle esortazioni di fondo è stata quella a non lasciarci imprigionare dalla logica del “tutto o niente”…
“Quello che mi è piaciuto del Sinodo è che, per volere del Papa, è stato un dibattito aperto. Nella questione dei divorziati risposati, come in genere in tutte le situazioni di famiglie diverse da quelle tradizionali, non è tutto o bianco o nero: la realtà è molto più sfaccettata, ci sono mille sfumature. Già Benedetto XVI parlava di attenzione verso i divorziati risposati: la Chiesa ha una tradizione nella misericordia”.

Al centro del suo libro c’è la constatazione del progressivo indebolimento della famiglia: fino a che punto?
“C’è un elemento, nel dibattito, che in genere è abbastanza assente: le società moderne – per i cambiamenti economici, produttivi, culturali e socioculturali degli ultimi decenni – hanno meno bisogno della famiglia tradizionale ‘forte’ di una volta. Cinquanta, sessanta anni fa anche in Italia, come in tutto il mondo occidentale, c’era un’economia fondata soprattutto sull’industria, pesante e manifatturiera, e l’uomo che alla sera tornava a casa dal lavoro non poteva essere solo, aveva bisogno di una famiglia alle spalle. Tutta l’organizzazione della società si modellava su assetti produttivi di questo tipo. Nella società di oggi, il 70% dei lavoratori sono nel comparto dei servizi: si lavora ‘con la penna’, si lavora molto meno. E in una società che si è modellata su questo tipo di lavoro la necessità di una famiglia tradizionale forte è indiscutibilmente minore. È da qui che bisogna cominciare: altrimenti, qualsiasi discorso sulla famiglia ha un retrogusto di astrattezza”.

Il calo vertiginoso dei matrimoni, religiosi e civili, è rimpiazzato dalle coppie di fatto?
“Il matrimonio religioso è in crisi epocale, ma non è che i matrimoni civili stiano meglio. Le coppie di fatto, però, pur in aumento non sono un elemento determinante: tra coppie unite in matrimonio, religiose e civili, e coppie di fatto non si raggiunge minimamente il livello di intensità di coppie che si aveva nei precedenti decenni. Il tasso di responsabilità dei legami diventa sempre più basso. In Italia le unioni di fatto – 1.200.000, su 14 milioni di coppie – sono una su 11, vale a dire che per ogni coppia di fatto ce ne sono 10 unite in matrimonio. Oggi la forma di ‘non famiglia’ che risulta in crescita è quella delle coppie di fatto non conviventi, dunque a bassissimo tasso di responsabilità. In Italia cinque milioni di persone, tra i 25 e i 50 anni, vivono da sole: è chiaro che gran parte, o almeno una buona parte di queste, non può non vivere in coppie di fatto non conviventi. Vivere in due case diverse lascia infatti un margine di manovra assoluta ai due membri della coppia, che però corrisponde benissimo alle necessità dell’individualismo imperante”.

La questione, allora, si sposta sul piano culturale…

“Esattamente. Il grande problema è quello del rapporto tra individuo e famiglia. L’equiparazione, di fatto e di diritto, di tutti i tipi di famiglia va a scapito di quelle forme di famiglia – come quella tradizionale – a più alto tasso di responsabilità, su cui si regge la società. Se continuiamo, invece, a questi ritmi di crescita delle coppie di fatto non conviventi, il rischio è che in tre o quattro decenni la famiglia si inabissi del tutto. Neanche gli assegni alle neomadri risultano efficaci: le misure efficaci sono quelle che accompagnano, specialmente nelle prime età della vita, le famiglie nell’allevamento dei figli. In Occidente, insomma, siamo preda di un grande equivoco: per un verso incentiviamo la natalità dando solo aiuti per i figli, dall’altra in nome dei diritti individuali e degli stessi diritti per tutte le coppie, rivendichiamo spazi maggiori proprio per quelle famiglie che non fanno figli”.