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”Difficile farsi largo nel mondo degli ultra-ricchi”

giusromaDi Luigi Crimella
La ricchezza del mondo ammonta a 263mila miliardi di dollari. Lo attesta uno studio di Credit Suisse dal titolo “Rapporto 2014 sulla ricchezza globale”, edito nei giorni scorsi. Dalla grande crisi del 2008 ad oggi c’è stato un aumento del 20% e un più 39% rispetto al picco minimo del crollo di Lehman Brothers. Nei prossimi 5 anni si prevede che la ricchezza globale crescerà di un altro 40% con un balzo dei Paesi emergenti e il consolidamento del primato di Stati Uniti, Europa, Giappone, Corea, Paesi arabi. I “milionari” nel mondo (che hanno più di 1 milione di dollari di patrimonio) sono 34,8 milioni, di cui gli italiani sono 1,6 milioni. I super-ricchi (con più di 50 milioni di dollari) sono invece 128.220: gli italiani super-ricchi sono “solo” 3.322, mentre gli statunitensi sono ben 62.858, praticamente quasi la metà degli ultra-ricchi. Per capire il senso di questa situazione, abbiamo intervistato il direttore generale della Fondazione Censis, Giuseppe Roma.
Dopo lo scoppio della crisi della Lehman Brothers la ricchezza globale è cresciuta del 39% rispetto al picco minimo del 2008. Nell’ultimo anno è salita dell’8,3%. Possiamo considerarlo un bene?
“In generale mi sembra che non vada demonizzato il fatto che nel mondo ci sia una maggiore area di benessere rispetto al recente passato, perché questo stesso nostro mondo appare meno diviso tra i pochissimi Paesi ricchi e i tanti Paesi poveri. Purtroppo va notato anche che la ricchezza si fa sempre più con la ricchezza e appare sempre più difficile che i ‘nuovi’ possano accedere a un patrimonio di un milione di dollari producendo qualcosa di tangibile. Oggi i ricchi spesso sono tali perché conoscono strumenti speculativi particolari, tipo gli hedge fund, e sanno trarre benefici da questo plus di conoscenza non alla portata di tutti. È quella che viene chiamata ‘economia di carta’, senza parlare di attività quali la droga, la prostituzione, il contrabbando ricondotti nel computo del Pil”.
I ricchi aumentano e aumentano anche i poveri: siamo di fronte a una tendenza inarrestabile?
“Se vogliamo essere realisti, dobbiamo considerare che in tutto il mondo l’accesso alla ricchezza è sempre più difficile a causa di una ipercompetizione a tutti i livelli, in taluni casi a causa di oligarchie, o della gestione del potere, oppure anche per il calo demografico che porta le nuove generazioni ad avere più difficoltà nell’affermarsi sul lavoro o creando imprese e quindi diventando persone ‘agiate’. L’evoluzione socio-economica degli ultimi decenni ha fatto sì diminuire la povertà in termini assoluti, ma ha anche fatto aumentare la forbice tra ricchi e poveri. Le politiche degli Stati dovrebbero quindi essere attente a ridurre questa ‘forbice’ cambiando certe condizioni di carattere istituzionale e strutturale. E poi occorrerebbe un maggior controllo della finanza, che sembra dominare la vita delle persone”.
Il capitalismo sembra aver vinto rispetto agli altri sistemi, tipo il comunismo. Ma bastano le politiche redistributive a correggere i suoi eccessi oppure siamo destinati a subire lo strapotere del denaro?
“Direi che per un certo verso il capitalismo non abbia vinto, perché ha aumentato l’incertezza e le paure delle persone. Forse ha vinto nel senso che esige una maggiore responsabilità nella libertà che consente alle persone di diventare artefici del proprio destino economico. Le politiche redistributive, per come sono state enunciate, appaiono una correzione che accetta il modello. Forse sarebbe più opportuno cercare un modello sociale che sappia mettere al centro non il denaro ma la persona, sempre in una logica di progresso e partecipazione di tutti al benessere”.
L’Italia mantiene un liberalismo temperato o, se si preferisce, condizionato da un’alta imposizione fiscale. Ma il Paese non cresce. Possono continuare a convivere alta tassazione e basso sviluppo?
“Oggi tutti riconoscono che l’alta tassazione non è una risposta per finalità sociali ma per la conservazione di un sistema politico-burocratico che preserva e alimenta se stesso, mantenendo divari sociali artificiali e spesso ingiustificati. In Italia, alla spontanea formazione di diseguaglianza derivante dal mercato si aggiunge la gestione di quasi la metà delle risorse prodotte dal Paese da parte della politica. Questo è un peso e un cruccio per le famiglie che dovendo pagare tante tasse e bollette non investono sul futuro, sui figli, sulla propria libertà di scelta. Il Paese dovrebbe poter tornare a quei meccanismi virtuosi che hanno prodotto lo sviluppo degli anni ‘50 e ‘60, ma non ce la fa perché moltissime risorse sono assorbite dallo Stato e dalla sua burocrazia”.
La dottrina sociale della Chiesa può ancora dire e dare qualcosa di fronte a un mondo sempre più diviso tra super ricchi e super poveri?
“Se guardiamo la dottrina sociale della Chiesa nella sua concezione più profonda, essa, in fin dei conti, rappresenta quello cui tendono le società più avanzate: cioè che ogni persona è responsabile del proprio avvenire in un contesto in cui la finalità non è solo l’interesse personale ma anche quello che si chiama ‘bene comune’. Il miglior imprenditore è quello che ama la sua attività più delle sue ville. In sostanza è un modello sociale in cui l’uomo non sia schiavo dell’economia, né tantomeno della finanza, ma volga la propria attività a produrre lavoro, civiltà e ricchezza per sé, la propria famiglia e anche per gli altri. In fondo propone una civiltà del lavoro non egoistico. Se sapremo accogliere tale insegnamento potremo farne tesoro per i tre settori del futuro che sono le nuove tecnologie, la green economy e i servizi alla persona. La natura, le persone, la comunità sono alla base della dottrina sociale cattolica. E al suo interno la ricchezza non è per pochi, ma per il benessere crescente di tutti”.