carcereDi Michele Luppi

Il carcere è per sua natura una realtà difficile da raccontare. Una realtà fatta di muri, protocolli di sicurezza e di una separazione non solo fisica, ma spesso anche sociale, da quanto avviene al di fuori. Lo sanno bene i giornalisti che si occupano di cronaca giudiziaria, ma lo sanno ancora di più i detenuti o le associazioni che operano all’interno delle carceri italiane, chiamate a confrontarsi con una certa incapacità dei media di raccontare quanto avviene dietro le mura delle case circondariali. È per cercare di correggere queste distorsioni che, all’interno delle carceri, sono nati veri e propri giornali scritti dai detenuti. Sono oltre settanta le testate attive in Italia e riunite nella “Federazione nazionale dell’informazione dal e sul carcere”, nata il 24 novembre 2005. Punto di riferimento delle federazione è la redazione di “Ristretti Orizzonti”, il giornale della casa circondariale di Padova (www.ristretti.it).
Un ponte con la “società esterna”. “La creazione di una Federazione – spiegano i promotori – rappresenta un passaggio fondamentale per riavvicinare il mondo penitenziario alla società esterna. Il nostro obiettivo è quello di favorire l’integrazione sociale delle persone provenienti da percorsi di devianza (con effetti di prevenzione della recidiva), ma anche di coloro che sono “a rischio” di devianza. Lo strumento di cui possiamo servirci è solo uno: l’informazione, o meglio la correttezza e la puntualità dell’informazione: per stimolare interessi e sensibilità nella gente comune, troppo spesso vittima di stereotipi, pregiudizi e paure, alimentati da un giornalismo incapace (o impossibilitato) di rischiare prese di posizioni impopolari e, piuttosto, propenso a dare in pasto al pubblico ciò che esso chiede”. Un lavoro, quello giornalistico, che ha anche funzioni rieducative “per far maturare nei detenuti, negli ex detenuti, nelle persone che comunque si sentono messe ai margini, la consapevolezza di poter avere una dignità sociale”.
L’esperienza di Carte Bollate. “I giornali non scrivono cose scorrette ma sbagliate, disinformate. Per questo noi cerchiamo di fare cronaca, per informare e contro-informare”, racconta Susanna Ripamonti, cronista giudiziaria di lungo corso ora alla direzione di Carte Bollate, testata del carcere di Bollate nei pressi di Milano. La direttrice spiega come gli errori più comuni riguardino spesso la terminologia non appropriata che viene utilizzata a partire, ad esempio, dal termine “secondino”, ancora utilizzato per indicare gli agenti di politica penitenziaria. Alla redazione del bimestrale, che esce in circa duemila copie, lavorano una ventina tra redattori e redattrici a cui si aggiungono 6 o 7 volontari di cui 4 giornalisti professionisti. “È necessario – continua la direttrice – che la stampa lavori per una nuova cultura del carcere e noi cerchiamo di farlo”.
La Carta di Milano. Qualche piccolo passo negli ultimi anni sembra essere stato fatto grazie all’impulso dei giornali carcerari ed, in particolare, di tre testate – le già citate Carte Bollate e Ristretti Orizzonti, insieme a Sosta Forzata (Piacenza) – che hanno promosso il percorso verso la “Carta di Milano” adottata dall’Ordine nazionale dei giornalisti nel 2013; un protocollo deontologico rivolto ai giornalisti che trattano notizie riguardanti carceri, persone in esecuzione penale, detenuti o ex detenuti. Molto resta però ancora da fare, soprattutto sul fronte culturale da parte di stampa ed opinione pubblica. Tra i nodi ancora aperti c’è il tema del “diritto all’oblio” ovvero “il riconoscimento del diritto dell’individuo privato della libertà o ex-detenuto tornato in libertà a non restare indeterminatamente esposto ai danni ulteriori che la reiterata pubblicazione di una notizia può arrecare all’onore e alla reputazione”. Un punto inserito e poi eliminato dalla Carta e su cui il dibattito nel mondo del giornalismo è ancora aperto, perché corre lungo il crinale sottile tra il diritto di cronaca e la tutela della dignità delle persone coinvolte, non solo dei colpevoli ma anche delle vittime.

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